Buongiorno a tutti!
Oggi mi risulta difficile scrivere questa recensione, perché
sento di non avere le competenze necessarie per rendere giustizia al libro in
questione e per parlarne in modo approfondito e professionale. È uno di quei
momenti nella vita in cui ci si sente particolarmente ignoranti, nel senso
positivo del termine però. Quell’ignoranza che ti spinge a volerne sapere di più,
ad imparare le parole giuste per esprimere i concetti giusti, quindi
l’ignoranza positiva: quella che vuole essere colmata.
Una parte della colpa è proprio del libro, delle sue caratteristiche e della sua trama.
Ma di questo parleremo tra poco.
Il titolo di oggi è “A sangue freddo” di Truman Capote, ed è
molto famoso, perché parla di un delitto realmente accaduto nel 1959, l’omicidio
di una famiglia, i Clutter, genitori e due figli adolescenti. Gli autori della
strage, due giovani uomini, sono entrati in casa con l’intenzione di rapinare
ed uccidere tutta la famiglia. Si potrebbe parlare di spoiler, perché
racconterò qui come va a finire la storia ma in realtà non lo posso considerare
un vero e proprio spoiler, perché è accaduto davvero e i fatti sono dunque
molto noti. Comunque voi la pensiate sugli spoiler, sappiate che qui parlerò
sia dei responsabili sia di quello che avvenne, quindi a voi la scelta di
continuare o meno nella lettura.
La trama narra della
famiglia Clutter e dei responsabili del delitto prima dell’omicidio e di quello
che avvenne dopo, tra cui la fuga, le indagini, le persone care e i compaesani
rimasti nello shock. Ritengo sia un resoconto giornalistico, molto chiaro,
crudo nella sua imparzialità, se così la si può chiamare. L’autore riesce a
mescolare molto bene la parte giornalistica di cronaca con la parte del
racconto e, a volte è proprio questo mix che spinge il lettore ad andare avanti
nella lettura, a superare l’orrore e l’insensatezza del delitto. Se Capote
avesse scritto un semplice resoconto giornalistico sarebbe stato estremamente
difficile completare la lettura delle quasi 400 pagine, invece la scelta di
mescolarlo allo stile del racconto permette di distanziarsi e continuare,
leggendo un capitolo dietro l’altro. E non importa se già dalle prime righe
emerge il finale.
In alcuni passaggi ho avuto la sensazione di leggere un
romanzo giallo, non una trama reale, della vita e della morte di persone reali
e realmente esistite. La consapevolezza di ciò arrivava a sprazzi, come vampate
di calore che vanno e vengono. Tale consapevolezza portava con sé una grande
tristezza ed una grande amarezza per l’impossibilità di fare qualcosa, di
impedire tutto questo. Nei romanzi, se si empatizza con i personaggi, dispiace
per la trama, soprattutto se è particolarmente drammatica, ma nulla di
più. Sapere che però tutto questo è
avvenuto veramente ha un peso del tutto differente.
I personaggi maggiormente approfonditi, probabilmente perché
sono stati quelli più frequentati dall’autore, sono i due responsabili: Perry
Smith e Richard Hickock. Lo scrittore ha infatti passato diverso tempo con
loro, prima dell’esecuzione e ha raccolto così molte informazioni sulle loro
vite e sulle loro personalità. Personalità definite dallo psichiatra che si
occupò del caso e che testimoniò poi in tribunale come psicopatiche. O meglio
l’equivalente di quello che oggi chiamiamo disturbo antisociale di personalità.
Infatti il termine psicopatia non risulta esaustivo per questi uomini, però
viene utilizzato perché spiega gran parte del loro comportamento. Soprattutto se si considera il movente alla
base della violenza: soldi. Che non erano tra l’altro presenti nella casa.
Quattro omicidi per ottenere alla fine quaranta dollari. Una miseria. Questa
insensatezza aggrava ancora di più la posizione dei due colpevoli reo confessi.
Sullo stile non mi sento di dire altro, se non che Capote è
stato magistrale nel mixare lo stile di cronaca a quello del racconto.
Sembrerebbe che questa esperienza lo abbia provato non poco,
e sembra che a causa di questo libro, frutto di 6 anni di lavoro, l’autore non
sia più riuscito a completare nessun altro libro. Quindi da un lato ha segnato
l’apice della sua carriera e dall’altro l’inizio del declino. Il pubblico fu
molto critico con lui, scrittore maledetto e omosessuale, perché ritenuto
colpevole di voyeurismo cinico. Il suo intento era di raccontare in maniera
oggettiva quanto avvenuto, ma come sempre accade quando si entra da osservatore
all’interno di un contesto non si riesce a restare completamente imparziali. La
nostra vita, la nostra storia personale, le nostre credenze, i nostri valori,
sono parte di noi e non è possibile per nessuno al mondo metterle da parte al
100%. Nonostante ciò ritengo che Capote sia riuscito a scrivere il libro nel
modo più possibile imparziale, quindi
tanto di cappello.
Diversamente da quanto avviene nei film, nella realtà non si
potrà mai avere la certezza completa di quanto è avvenuto durante un delitto in
cui gli unici testimoni sono i colpevoli. Ci si deve affidare a supposizioni,
alle prove raccolte e ai loro racconti. E ci sarà sempre un dubbio non colmato
o un’incertezza costante nella mente, in questo caso, di chi legge.
Consiglio questo libro? Assolutamente sì. Soprattutto a
quelle persone che vedono il mondo in bianco e nero ed ignorano invece le mille
sfumature intermedie. Persone come i due colpevoli che compiono azioni
deplorevoli come l’omicidio sono sicuramente da condannare, ma conoscere la
storia alle loro spalle, le loro condizioni mediche, o le loro motivazioni (non
in questo caso, ma in altri sì) fa veramente la differenza tra un mostro ed un
essere umano. I mostri non esistono, gli esseri umani che mettono in atto
comportamenti mostruosi invece sì. Non sto assolutamente giustificando gli
autori degli omicidi, ma credo che fare questo sforzo mentale di mettersi nei
panni dell’altro possa aprire le nostre menti, renderci flessibili e più umani.
A presto.
-Pearl
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