Buongiorno gente!
In questi giorni di quarantena mi sarei immaginata di
leggere molto di più, invece ho scoperto che in realtà leggo meno spesso, ma
per tempi più prolungati. Andando al lavoro con i mezzi pubblici infatti dedico
ai libri il tempo del tragitto, circa 30 minuti al giorno. A casa posso leggere
per ore, ma meno frequentemente, infatti la stanza che assorbe la maggior parte
del tempo è la cucina.
Mi so dedicando a tutte le ricette che avrei sempre
voluto provare ma per le quali mi è
sempre mancato il tempo. Ma torniamo ai libri.
Ho letto in questi giorni un titolo molto famoso ma per
nulla recente, risale infatti all’anno 1929 ed è la prima opera di Erich Maria
Remarque “Niente di nuovo sul fronte occidentale”.
Narra la storia di Paul Bäumer, un diciannovenne che si trova arruolato tra il
1914 ed il 1918 sul fronte tedesco, nella Prima Guerra Mondiale. Con lui ci
sono i suoi compagni di classe, tutti arruolati insieme su suggerimento del
loro professore di scuola, e altri personaggi adulti, come Katzinski, che
condividono la vita con loro in quanto parte della stessa camerata. Si percorre
insieme ai personaggi tutta la tragica vicenda del conflitto, dall’entusiasmo
iniziale di giovani uomini che vogliono essere eroi, all’orrore delle
esplosioni, delle morti, della stanchezza e della solitudine.
Lo stile di scrittura è piuttosto semplice, anche se
particolarmente accurato in alcuni dettagli, si nota infatti come l’autore
abbia vissuto realmente il pericolo e le trincee. Anche lui diciannovenne,
infatti, era stato arruolato e successivamente, nel 1917, ferito, quindi
rimandato in patria per poter essere curato. Non si può certo parlare di un’autobiografia,
ma sono sicura che la sua esperienza personale abbia avuto un ruolo importante
per la trama, credo che l’abbia resa molto realistica ed allo stesso tempo più
semplice. È difficile raccontare e descrivere in modo allo stesso tempo preciso
e chiaro un avvenimento o un concetto, se non lo si conosce bene, e una delle
modalità di apprendimento, spesso sottovalutata, è l’esperienza. Per questo,
secondo me, è riuscito a trascrivere e a mettere in parole la tragicità della
guerra.
È stato però comunque difficile da leggere, per le tematiche
trattate e per la drammaticità della Prima Guerra Mondiale, nonché a causa della
consapevolezza che, anche se i personaggi non sono realmente esistiti, sono
esistiti dei loro corrispondenti: quello che i protagonisti vivono nelle pagine
del romanzo sono situazioni veramente vissute da chi nella vita reale la guerra
l’ha combattuta davvero. Trovo inoltre che tra gli aspetti peggiori di tutto
ciò vi siano la distruzione psicologica ed il crollo delle speranze a cui
questi giovani sono corsi incontro senza sapere che invece correvano incontro
alla morte. Ci sono dei passaggi all’interno del libro, che lo mostrano
chiaramente, come i pensieri sulle motivazioni alla base della guerra e sulla
speranza di progetti futuri di Paolo (sì, perché nella versione italiana i nomi
sono stati tradotti) a cui lui stesso cerca di porre un freno per non perdere
la lucidità e non cedere alla disperazione. C’è inoltre un enorme scollamento
tra la vita a cui i ragazzi erano abituati e a come la guerra ha trasformato la
loro normalità. E questo si nota molto bene quando, in licenza, il protagonista
si trova al bar con un vecchio professore. C’è un enorme differenza tra quando
le cose vengono vissute in pima linea, direttamente, e quando invece vengono
vissute dalle retrovie, da chi la guerra la immagina soltanto e non fa altro
che essere bombardato di propaganda e di false speranze.
L’aspetto psicologico comporta anche un grossissimo problema
che in realtà è stato messo a fuoco ed accettato solo molto tempo dopo: il PTSD
– Post Traumatic Stress Disorder oppure, in italiano, DPTS – Disturbo Post
Traumatico da Stress. Quando Paolo torna a casa in licenza mostra molti dei
segnali tipici di questo disturbo, e man mano la situazione peggiora, di pari
passo peggiorano anche i sintomi. Proprio durante questa guerra sono cominciati
gli studi al riguardo, continuati poi con la Seconda Guerra Mondiale, la guerra
di Corea e la guerra del Vietnam e solo nel 1980 è stato inserito come vero e
proprio disturbo nel DSM III (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi
mentali, terza edizione).
I personaggi, così come la trama, risultano realistici ed è facile
immedesimarsi ed affezionarsi, se non a tutti, almeno ad alcuni di loro.
Credo che aver letto questo libro proprio ora mi abbia
spinto a fare delle riflessioni che mi hanno colpito emotivamente molto più di
quanto avrebbero potuto fare in una situazione diversa. Noi siamo a casa, per
arginare un virus pericoloso, soprattutto per una parte della popolazione, ma
non solo, e per interrompere il suo contagio, dentro e fuori il confine del
paese. Eppure ci stiamo rendendo conto di come sia difficile per noi accettare
dei limiti imposti dall’esterno, anche se richiedono solamente di non uscire.
Ai nostri nonni, ai nostri bisnonni, ai nostri genitori, è stato chiesto molto
di più in passato, perché chi aveva avuto la possibilità di farlo (Capi di
Stato, Imperatori e quant’altro) non hanno scelto di essere responsabili dal
punto di vista umano e hanno scelto di non pensare al bene comune, per la
propria gente, ma ad altro, fosse esso orgoglio, potere, denaro, territori,
eccetera.
Oggi stiamo provando a mettere il bene comune davanti a
tutto, stando tranquilli a casa, ci sono offerti servizi gratuiti e comodità di
vario tipo. Siate responsabili, e state a casa.
Vi lascio una piccola parte spoiler perché vorrei dire due
cose sul finale, quindi per chi non ha letto “Niente di nuovo sul fronte
occidentale”, vi consiglio di recuperarlo appena potete e noi ci aggiorniamo
alla prossima volta.
A presto!
-Pearl
ATTENZIONE!!!
SPOILER
Tra le morti che mi hanno colpito di più e di cui mi è
dispiaciuto moltissimo c’è l’ultima morte, quella che lascia Paolo da solo al
fronte, ovvero la morte del mio personaggio preferito Katzinski. Dispiace
sempre quando muore qualcuno, ma lui era un uomo di mezza età, un calzolaio con
famiglia e figli. Però era una morte che mi aspettavo fin dall’inizio, perché si
sa, i personaggi svegli, intelligenti, con un sesto senso, insomma, quelli che
sembrano troppo per essere reali, finiscono sempre per morire, e non sono mai i
protagonisti.
Un’altra cosa che mi ha lasciato un po’ perplessa è che alla
fine si dice:
“Egli cadde nell’ottobre
1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il
bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: «Niente
di nuovo sul fronte Occidentale». Era caduto con la testa in avanti e giaceva
sulla terra come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver
sofferto a lungo: il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi che
fosse contento di finire così.”
Non ho capito subito che si riferiva a Paolo, anche se
adesso in realtà sembra assolutamente ovvio. Mi è dispiaciuto, soprattutto perché
era ottobre 1918, e la guerra è finita, ufficialmente, l’11 novembre 1918,
quindi circa un mese e forse meno dalla sua morte. Si è fatto tutta la guerra,
per poi morire alla fine. L’ho trovata una fine molto tragica e triste, quindi
sicuramente un libro molto bello, ma non certo un libro leggero.
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