mercoledì 28 dicembre 2016

Romanzo familiare - Capitolo 2


“Lessico famigliare”, di Natalia Ginzburg, è un libro autobiografico, che narra alcune vicende della famiglia Levi, la famiglia dell’autrice, soprattutto nel periodo fascista e della seconda guerra mondiale.
Quando ho preso in mano questo libro la prima volta, non mi aspettavo sicuramente di trovare una storia simile. Ancora meglio, non mi sarei mai aspettata di

trovare questa modalità di racconto, se così si può dire. Mi immaginavo, infatti, un classico romanzo familiare: pesante, impegnativo, che richiedesse una buona dose di attenzione, che parlasse di borghesia, di drammi esistenziali e intellettuali. Avrei dovuto immaginare dal basso numero di pagine (duecentoventidue) che non sarebbe stato esattamente così. “Lessico famigliare” è si la storia di una famiglia, una famiglia abbastanza colta e che ha vissuto parecchi drammi esistenziali (e non solo), ma essa non ha un filo logico vero e proprio, o un ordine gerarchico impossibile da smantellare; i membri di questo gruppo familiare si sentono, presenti e importanti, ma è spesso più importante ciò che li lega rispetto al singolo personaggio in sé e per sé. Benché la maggior parte degli episodi segue un ordine cronologico, non ho avuto la percezione di una trama fluida e un percorso lineare, bensì tutt’altro. È stato come se stessi guardando un album di famiglia: sprazzi di immagini, fotogrammi. Insomma, non siamo davanti al polpettone difficile da digerire! E benché io, in quel momento, stessi cercando proprio una lettura simile, tale scelta dell’autrice risulta estremamente efficace per quello che lei ci vuole dire. La Ginzburg, per raccontare della sua famiglia, offre un punto di vista anomalo, diverso e lo fa utilizzando il filtro del linguaggio.
L’essenza della sua famiglia, e non poteva essere altrimenti per una famiglia dalle origini ebraiche, è il verbo. Da qui si spiega il titolo del libro. Le storie dei personaggi si snocciolano attraverso frasi, filastrocche, modi di dire che hanno il sapore del focolare, della tradizione; di qualcosa passato di bocca in bocca e di generazione in generazione. È attraverso la parola che i figli e i nipoti plasmano la loro identità, personale e collettiva ed è attraverso la parola che si da la possibilità alle generazioni precedenti di vivere in eterno.  Così, non risulta più importante l’episodio di vita, ma il come quell’episodio è stato vissuto dai personaggi e le parole che essi hanno usato per esprimere i loro sentimenti, proprio perché spesso, quelle parole, non sono state dette a caso. Al contrario, sono state preferite ad altre in quanto chi le ha espresse è appartenuto ad uno specifico gruppo familiare.
La percezione che ho avuto (più o meno) del grande messaggio di fondo che voleva trasmettere questo libro è stata questa: mi sono state insegnate miliardi di parole e miliardi di espressioni, ma il mio cognome è questo e per dire quello che voglio dire preferirò sempre certe parole ad altre. Spesso non sarà una scelta ragionata, ma guidata dall’istinto e dall’abitudine, eppure grazie a ciò verrà definita parte della mia identità e verrò riconosciuta come persona appartenente ad un determinato gruppo sociale; chi è venuto prima di me, potrà rivivere in me.
Ancora più importante dei fatti eccezionali sono i giorni ordinari raccontati dalla scrittrice, il quotidiano intriso di frasi e detti altrettanto quotidiani; le espressioni abitudinarie di una famiglia che ha vissuto gran parte del secolo scorso, tra drammi politici, economici, etici e sociali.
La parola semplice, ripetuta e condivisa, diventa una parola d’ordine che veicola il riconoscimento dello stesso sangue, da membro a membro, come un saluto segreto e unico. In ogni famiglia esiste una sorta di eredità verbale che i fratelli, i cugini, gli zii riconoscono come propria e che sembra testimoniare costantemente lo stesso punto di partenza, le stesse prime tappe della propria vita, lo stesso ambiente entro il quale abbiamo iniziato a muoverci, confermando che, determinate cose, possono essere capite solo dai propri familiari.
Sicuramente, se esistono delle figure di spicco in questa sorta di arguzia verbale condivisa, credo si possano individuare in: Giuseppe Levi, padre, capofamiglia e coordinatore dei propri figli; Cesare Pavese, di cui l’autrice racconta il suicidio e il marito di Natalia, Leone Ginzburg, ucciso per attività politica antifascista.
Consiglio questa lettura se cercate qualcosa di breve, ma efficace, ma attenzione: come effetto collaterale potrebbe farvi compiere un processo di analisi e ricerca ai danni della vostra famiglia!
Buone feste e buone letture, lettori!


-Liù

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