Buongiorno a tutti!
Oggi un grande classico della letteratura internazionale,
nonché uno degli autori più importanti dall’America Latina: Gabriel Garcia
Marquez. Autore già trattato dal nostro blog, sia con una delle sue maggiori
opere “L’amore ai tempi del colera” sia con “La mala ora”.
Questa volta ci occuperemo dell’altra sua opera più
conosciuta, ovvero “Cent’anni di solitudine”, del 1967. Io avevo letto solo “La
mala ora” di questo autore, che tra l’altro è il libro precedente in ordine
cronologico.
La storia narra della famiglia Buendìa e di ciò che accade
ai suoi singoli membri nel corso di 100 anni. Quindi si parte da Josè Arcadio
Buendìa e sua moglie Ursula e dai loro due figli maschi, il primo con lo stesso
nome del padre e il secondo Aureliano, e dall’unica figlia femmina di nome
Amaranta.
È stato un po’ difficoltoso l’inizio in quanto i personaggi
sono molti, ma soprattutto nel corso degli anni si ripetono ad oltranza gli
stessi due o tre nomi, in particolare José Arcadio e Aureliano. Ad un certo
punto, più o meno la terza generazione si mescolano una quantità di Aureliano
che diventa difficile ricomporre l’albero genealogico e seguire così la trama.
A parte però questa fase centrale in cui si susseguono sempre gli stessi nomi,
il libro è scorrevole.
Tra i personaggi che ho apprezzato maggiormente ci sono
Aureliano, il secondo figlio che è presente fin dal primo capitolo, e Ursula,
l’highlander della storia, perché vivrà fino alla fine del romanzo, alla
veneranda età di circa 125 anni. Mi sono un po’ ritrovata nel secondo figlio
perché anche io lo sono, ma anche nel carattere del ragazzo, particolarmente
razionale, solitario e poco emotivo con gli altri. Si differenzia in particolar
modo dal fratello maggiore che invece incarna lo stereotipo machista della
società: uomo alfa, sessualmente dotato, muscoloso, forte, alto e bello. Anche
se poi risulta essere più che altro un rozzo. Aureliano invece rappresenta un
po’ di più l’uomo di intelletto, di scienza, che riflette sulla vita,
maggiormente filosofico ma non per questo un uomo escluso dall’azione. Infatti poi sarà lui il colonnello che
guiderà la ribellione dei liberali contro i conservatori e che diventerà
famoso.
Lo stile di scrittura è affascinante, e ho apprezzato
tantissimo le meravigliose metafore che Marquez è riuscito a creare durante la
narrazione. Le metafore sono a mia opinione come dei trabocchetti, perché
potrebbe sembrare facile paragonare un avvenimento, un’azione o un oggetto a
qualche immagine diversa e creativa, ma riuscire a non scadere nel banale o
nelle ripetizioni o nell’assurdo, non è da tutti. Quindi le metafore per me
sono fondamentali, uno dei modi migliori per capire se l’autore è
effettivamente bravo come potrebbe sembrare. E Marquez è bravo. Decisamente
bravo.
Questo anche perché nonostante le lunghe pagine e i momenti
di solitudine che vengono descritti per molte pagine non diventa mai noioso. Ad
esempio non mi sono mai addormentata leggendo questo libro, perché lo stile di
scrittura non è soporifero come per esempio in altri romanzi; mi è infatti capitato
di crollare addormentata durante la lettura con altri libri, come per esempio “Io
sono un gatto”.
Un aspetto invece particolare di questo romanzo sono gli
aspetti fantasy che emergono nella trama come la malattia dell’insonnia, il
ritorno dalla morte, l’età longeva fino oltre l’immaginabile. È anche storia
dell’assurdo per certi versi.
L’ambientazione è ancora Macondo, il paese inventato
dall’autore e fondato dal capostipite della generazione Buendìa.
Il messaggio principale, che si potrebbe intuire dal titolo,
è la solitudine, ma non tanto la solitudine fisica quanto invece quella
interiore. L’ho trovato una meravigliosa metafora della vita, in cui stare in
compagnia non basta a non sentirsi soli
perché a volte la solitudine è più profonda, interiore, prende il sopravvento sulla
vita e allora anche in mezzo ad una folla non ci si sentirebbe bene o meno
soli. Ognuno reagisce in modo diverso per cercare un rimedio al proprio
malessere: c’è chi si dedica alla scienza e chi si dedica alle relazioni
sociali, c’è chi si butta a capofitto nel lavoro e nella manovalanza e chi
decide di non fare nulla e coltivare la solitudine. Ma anche all’interno della
stessa tipologia di reazione si possono trovare delle differenze, come ad
esempio avviene tra José Arcadio padre e Aureliano il secondo figlio. E questo si
percepisce fin dalle prime pagine del libro, che mi hanno richiamato alla
memoria un altro grande autore e musicista italiano: Fabrizio De Andrè. Per
tutto il tempo della lettura ho avuto nella mente una colonna sonora di
accompagnamento e in particolare la strofa: “Cari fratelli dell’altra sponda,
cantammo in coro giù sulla terra, amammo in cento l’identica donna, partimmo in
mille per la stessa guerra. Questo ricordo non vi consoli, quando si muore si
muore soli” tratta dalla sua canzone “Il testamento”.
Siamo tutti soli, sempre, in un modo o nell’altro,
internamente o fisicamente. Ma nonostante questo messaggio che potrebbe
sembrare deprimente o triste ritengo che questo sia un libro di grande
speranza. Che nonostante le scene a volte al limite della telenovela, che
nonostante le situazioni macabre, soprattutto verso la fine, quello che resta
dopo aver terminato la lettura è un sorriso amaro, ma pur sempre un sorriso. C’è
sempre una nuova speranza, una nuova scoperta, una nuova possibilità di
rinascere.
Consiglio questo libro a tutti. L’ambientazione e i
personaggi sono tipici dall’America Latina, ma anche se non vi sentite affini
allo stile della storia ritengo che sia uno di quei libri che bisogna leggere
almeno una volta nella vita.
-Pearl
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