Cara Emmeline,
siamo nel 2018, ma come tu ben sai la condizione delle
donne, soprattutto in certi luoghi, è ben lontana dall’essere rosea. Il libro
di oggi infatti viaggia fino allo Yemen, uno stato in cui le donne sono ancora
schiacciate da una cultura estremamente patriarcale.
Certo, non che qui da noi
sia stata completamente debellata, anche noi abbiamo tutt’oggi i nostri
problemi, ma la situazione in cui sono costrette a vivere le donne là potrebbe
farci veramente rabbrividire. Lo Yemen si trova in Asia, sotto l’Arabia
Saudita, ed è una di quelle nazioni con una visibile discrepanza tra la
campagna o la periferia e le grandi città, come ad esempio la capitale, Sana’a.
Il titolo di oggi è “La sposa bambina”, il racconto di come
Nojoud Ali si è ritrovata sposata a 10 anni, ed ha trovato il coraggio di
fuggire fino in tribunale per chiedere il divorzio. La prima edizione risale al
2009, e il divorzio, fortunatamente riuscito, è avvenuto nel 2008, quando la
bambina aveva appunto 10 anni. Questo libro è dunque stato scritto da una
giornalista che ha affiancato Nojoud e ha ascoltato i suoi racconti. La bambina
non era mai andata a scuola, o meglio, non era ancora alfabetizzata, in quanto
il suo percorso scolastico era stato interrotto precocemente anche a causa del
matrimonio.
La storia in sé è quella che tutti noi abbiamo sentito
almeno una volta quando si è parlato in televisione, sui giornali o altrove
delle “spose bambine”, dei matrimoni combinati, che in alcuni Paesi sono la
normalità. Il racconto è narrato in prima persona, con tempo presente, così
come viene vissuto dalla protagonista e i vari capitoli saltano tra la storia
di come si è giunti al matrimonio e come questa unione è stata vissuta e il
tribunale e l’andamento del divorzio.
Lo stile in sé è estremamente semplice perché, secondo me,
da un lato richiama l’età di Nojoud e dall’altro perché è un libro divulgativo,
che tratta tematiche sociali e deve dunque essere fruibile dalla maggior parte
delle persone. Ricalca in modo più semplice il racconto giornalistico, la
cronaca con qualche inserimento emotivo legato alla protagonista e a come ella
ha vissuto la situazione, o la disgrazia, a seconda di come volete chiamarla.
Ora veniamo però ai tre aspetti chiave di questo libro,
quelli che mi hanno portato ad una profonda riflessione sulla cultura e su me stessa.
Primo tra tutti la differenza tra la mia cultura e quella
della protagonista: mi ha stupito molto come, nella parte iniziale, comunque
nei primi capitoli, lei descriva la sua storia e la sua cultura come positiva,
come buona, in modo anche fiero ed orgoglioso. Eppure si è ritrovata sposata e
divorziata a 10 anni, dopo aver subito dal marito violenze sessuali, fisiche e
psicologiche. Come mai narra la sua cultura e le sue tradizioni in modo fiero?
Non tutte, il matrimonio viene comunque considerato negativamente, ma in
generale parla della cultura patriarcale come qualcosa di corretto, esagerato
nel suo caso ma condivisibile. Una delle mie prime riflessioni riguarda non la
sua cultura, ma la mia: noi occidentali (e coinvolgo l’occidente in generale,
non vogliatemene) abbiamo la tendenza ad erigerci a difensori dei diritti e a
giudici di pace, arrogandoci il diritto di sentenziare ciò che è giusto e ciò
che è sbagliato basandoci sui nostri canoni. Ma i nostri canoni derivano dalla
nostra cultura. Evidenziato questo punto, una protagonista come Nojoud ai
nostri occhi si manifesta come la vittima della sua cultura, e il fatto che
ella ne parli in modo anche positivo, ci fa drizzare i capelli in testa. Questo
semplicemente perché nella nostra mente lei rappresenta lo stereotipo della
vittima che sogna lo stupendo e altamente civilizzato occidente e la sua
cultura avanzata e paritaria. Non so se serve specificarlo ma lasciate che vi
dica che è tutto frutto delle nostre distorsioni cognitive.
Un secondo elemento importante, che viene riportato e che ho
apprezzato è il coraggio. Ci vuole tanto coraggio per cambiare la propria vita
in generale. Pensate anche solo al tempo che impieghiamo per scegliere di uscire
dalla nostra routine e provare a fare qualcosa di nuovo, che richiede più
impegno, più concentrazione, più tempo. Siamo nati e siamo fatti per scegliere
tendenzialmente la via più semplice, infatti tendiamo ad utilizzare le
cosiddette euristiche, le “scorciatoie mentali” che ci permettono di arrivare
ad una soluzione rapida ma spesso scarsamente efficace. Provate ora ad
immaginare a quanto coraggio serve per ribellarsi, andare contro tutto e tutti,
anche contro noi stessi, per cambiare una situazione. Per quanto dolorosa possa
essere, cambiare comporta un grandissimo sacrificio, un completo sconvolgimento
della propria vita, anche quella interiore. L’aver tradito la propria cultura,
la propria famiglia, le proprie tradizioni possono portare le vittime a non
ribellarsi, a non reagire, ad accettare passivamente ciò che accade.
L’ultimo punto chiave è la semplicità della scrittura e
dello stile. Abbiamo già dato due motivazioni, ma ce ne è una terza: Nojoud
descrive la sua storia in modo semplice e lineare, con lo stile di una bambina
che ha dovuto vivere questi eventi e che sono diventati per lei la normalità.
Ciò che è normale è soggettivo perché la parola normale in realtà non significa
nulla se la si estrapola dal contesto in cui è inserita. “È normale andare a
scuola” è una frase che ha senso solo da noi, perché ad esempio in diversi
paesi l’istruzione non è un diritto e non è di facile accesso. Anzi, in alcuni
luoghi l’istruzione è un privilegio. E questo stile è funzionale a far
trapelare questo messaggio.
È sicuramente un libro non facile da leggere, pesante che fa
riflettere e spesso fa sentire inadeguati o frustrati, come se non stessimo
facendo abbastanza per cambiare questo mondo. E chi sa la risposta a questa
domanda? L’ideale sarebbe fare sempre del proprio meglio.
-Pearl
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