venerdì 22 aprile 2016

Letteratura internazionale - Capitolo 8


“Abbiamo sempre vissuto nel castello” è un’opera di Shirley Jackson, scrittrice e giornalista morta a 48 anni. Questo romanzo a volte viene riportato con un titolo diverso, ovvero “Così dolce, così innocente” ed è stato pubblicato nel 1962. Narra la storia della famiglia Blackwood, ormai ridotta a soli tre componenti, ovvero lo zio e le due nipoti Mary Katherine e Constance. Nel paese in cui vivono vengono trattati come
dei reietti, sono odiati ma vengono comunque tenuti a distanza in quanto famiglia ricca e facoltosa.
Non voglio dire altro della trama se non il fatto che si unirà a loro un cugino che disturbare l’equilibrio raggiunto dai suoi parenti. Questo perché la storia di cosa è accaduto agli altri membri, nonché le ripercussioni sui personaggi, vengono svelate in modo armonioso lungo tutto il romanzo. Si riporta qualche accenno qua e là durante la trama, con una modalità molto simile a quella dei gialli. Certo questo non è un romanzo giallo e non c’è nessun mistero da risolvere però è affascinante come l’autrice riesca a diluire la trama, a fare degli accenni che sembrano casuali, come un ricordo. Quando noi ricordiamo qualcosa, un evento, lo ricolleghiamo automaticamente alle persone coinvolte, al luogo, al periodo dell’anno e a tutte le informazioni che possediamo e che siano inerenti a tutto ciò. In questo caso avviene la stessa cosa, solo che noi lettori non sappiamo veramente cos’è successo, non riusciamo a cogliere il senso, possiamo fare solo delle supposizioni fino a che, al termine del romanzo, non riusciamo a mettere insieme tutti i tasselli del puzzle. Svelandosi man mano, la considerazione che il lettore ha dei personaggi presentati cambia a seconda dei nuovi aspetti introdotti e questo dà un’idea dI come le cose siano diverse, se osservate da un diverso punto di vista, di come la verità non sia assoluta e non stia da una sola parte. 
Il racconto è scritto dal punto di vista di Mary, detta anche Merricat, che è la sorella minore, in prima persona. Non viene detta la sua età, come non viene detta quella degli altri personaggi, ma in base a quello che pensa e a come pensa io mi sono immaginata una ragazzina di 15 - 16 anni, quindi piuttosto giovane. Lei pensa e vive come se fosse in un mondo parallelo, si distacca dalla realtà esprimendo e mostrando delle credenze magiche, come per esempio cospargere il giardino di oggetti, che sembrano non avere nessun significato e che vengono utilizzati come degli amuleti per proteggersi dagli estranei, dai paesani. Oppure usa tre parole magiche che la salvaguardando da esperienze negative. Sono tutte cose a cui la protagonista crede e che, se all’inizio sembrano semplicemente un modo per allontanarsi dalla realtà, una sorta di meccanismo di difesa contro un’esperienza famigliare traumatica, verso la fine del romanzo somiglia sempre più ad una malattia mentale. C’è un’incapacità nel ritrovare il contatto con la realtà c’è una chiusura sempre più stretta in questo mondo parallelo che rischia di tramutarsi in una prigione.
Un punto di riflessione secondo me si può trovare nel rapporto tra la famiglia ed il resto del paese, perché questi paesani parlano alle spalle, spettegolano, si comportano male con la protagonista quando va a fare la spesa, diciamo che sembra un po’ una sorta di bullismo. Tutto questo non contribuisce a renderli particolarmente piacevoli o simpatici, anzi. C’è un episodio nel racconto che mostra come a volte, le situazioni, sfuggano di mano, soprattutto quando un gruppo di persone si muove insieme. È la psicologia delle masse, che abbassa i freni inibitori, fa sentire invincibili, perché tanto siamo molti e stiamo facendo tutti la stessa cosa, si abbassa il senso di responsabilità personale e si arriva a fare cose che, forse, soli non avremmo mai fatto. È lo stesso principio che si ritrova nelle guerriglieri tra tifosi, per intenderci. Questo ci porta a fare un passo in più nella riflessione, ovvero dove sta la colpa e dove sta il male. Queste persone sono tutte cattive? No, il punto è che il male sta ovunque. Hannah Arendt scrisse il famoso saggio “La banalità del male”, ed è esattamente così, tutti siamo portatori di male, tutti siamo potenzialmente in grado di fare cose anche terribili se ci troviamo in una situazione che facilita questo comportamento. Questo non significa che sia tutta colpa dell’ambiente,  ma ciò non toglie che l’ambiente e la situazione giochino un ruolo importante, a volte fondamentale. Questo per dire che, tutti siamo potenzialmente cattivi e possiamo fare cose terribili agli altri, ma anche a noi stessi. A volte con le migliori intenzioni. A volte, per proteggerci o per proteggere gli altri, finiamo con il distruggere noi stessi e le persone che amiamo e che volevamo tanto proteggere.
Lo consiglio perchè mi è piaciuto moltissimo.

-Pearl

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