martedì 21 marzo 2017

Narrativa - Capitolo 5


Buona sera a tutti, lettori!
Dal momento che sono impegnata in una fervente, entusiasmante, lunga lettura con “Il cardellino”, di Donna Tartt e chi lo conosce sa quale mattone gigantesco sia questo libro (sono a pagina 420 e non ho superato ancora la metà) e non avendo quindi pronta una lettura più recente di cui parlare, ho deciso di riesumarne una vecchia, risalente a qualche tempo fa: “Novecento”, di Alessandro Baricco.
Su questo autore ne

ho sentite dire parecchie, come per esempio il fatto che non si meriti tutta la fama che ha, che sia troppo commerciale, se non addirittura un vero e proprio “paraculo”. Molti lo detestano e molti lo amano. Io, avendo letto solo “Seta” e il romanzo di cui sto per parlare, mi ritengo abbastanza neutrale nei suoi confronti, o comunque abbastanza ignorante da non essere in grado di giudicare il suo lavoro nella sua interezza. Tuttavia “Novecento” mi è piaciuto e penso che meriti la giusta attenzione.
Questo romanzo è stato concepito per il teatro, come un lungo monologo da recitare sul palco e come dico sempre a proposito dei testi teatrali, non si può considerarne uno completamente finché non lo si è visto nelle modalità per cui è stato creato. Eppure qualcosa di diverso da un normale monologo c’è, o almeno si percepisce. Credo che Baricco si sia barcamenato almeno un po’ tra uno stile e delle modalità decisamente più letterarie e la trasposizione a teatro. Mi ha subito dato questa sensazione, ovvero l’idea che fosse prima di tutto un libro, anziché una rappresentazione. Non sono sicura che questa percezione sia un dato positivo o negativo, o che la mia supposizione sia vera, ma credo si noti il fatto che l’autore sia prima di tutto uno scrittore e non un commediografo, o drammaturgo. Detto ciò, è anche vero che per tutto il tempo mi sono immaginata un favoloso Marco Paolini davanti al pubblico e la cosa mi è piaciuta parecchio. Così, giusto per dare un suggerimento a Paolini e Baricco: nel caso, sappiate che io approvo.
Questo lungo monologo (e breve testo narrativo) è raccontato in prima persona da Max, un trombettista che all’età di ventisette anni viene assunto sul Virginian, un piroscafo sul quale conoscerà il singolare protagonista di questa storia: Danny Boodman T. D. Lemon Novecento. Novecento viene abbandonato ancora neonato a bordo di questa nave e viene adottato da un marinaio di colore, Danny Boodman, che gli sceglierà un nome e gli farà da padre, almeno per otto anni. Quando il padre adottivo verrà a mancare a seguito di un incidente, il bambino si nasconderà nella nave e nessuno sarà in grado di trovarlo. Comparirà soltanto in seguito, di sua spontanea volontà e con qualcosa in più di quando era scomparso: la straordinaria capacità di suonare il pianoforte senza aver mai preso lezioni da nessuno.
Tra Novecento e Max nasce una forte amicizia, un forte legame fraterno. I due sono musicisti, suonano insieme, non hanno nessuno di caro a cui tenere, vivono la quotidianità del Virginian, tra ricchi di prima classe e migranti di terza. Episodio epico quello della gara al piano forte, vinta da Novecento a sfavore del più grande pianista jazz dell’epoca e che ha scosso tutto il piroscafo da poppa a prua.
Tutto il mondo passa su quella nave, tutti sostano il tempo della tratta e poi se ne vanno per non tornare mai più; tutti tranne Novecento, che dal Virginian non è mai sceso in vita sua. A un certo punto della sua vita pensa anche di farlo, di scendere dalla nave e vedere com’è il mondo, ma arrivato al porto, sull’ultimo gradino della scaletta che separa il passato dal futuro, ci ripensa e torna indietro.
Max ha un forte legame col pubblico, o col lettore: è tremendamente umano, all’inizio soffre anche il mal di mare, è soggetto a rabbia e gioia come qualsiasi persona. Insomma, Max è uno di noi e ci possiamo facilmente riconoscere in lui. Novecento è l’opposto. Esiste un distacco tra questo personaggio e chi legge di lui. Non è minimamente realistico, è capace di cose incredibili e straordinarie, come suonare il pianoforte senza averlo mai imparato da terzi e sapersi nascondere senza lasciare la minima traccia. Sicuramente ha emozioni, ma capiamo poco delle sue scelte e le reazioni che ha sono volutamente inaspettate, inusuali; è una figura impalpabile e distante. Novecento è un Edward mani di forbice, è “quello strano”, è un nobile e genuino mistero e sono sicura che Baricco lo sappia. Quanto meno io l’ho interpretato così: Novecento non è realistico, perché non è una persona. Novecento è un’idea. È il fulcro stesso del romanzo e di ciò che l’autore vuole dire. La sua sola esistenza può esprimere cose diverse: l’idea che la vita non sia una meta, ma il viaggio stesso, o che sia ciò che viviamo mentre progettiamo qualcos’altro; l’angoscia esistenziale che spinge l’essere umano a tentare di raggiungere l’eternità e si trova saldamente attaccato all’incontrovertibile finito. Ecco, Novecento ribalta questo pensiero nefasto, abbracciando tutta la sua finitezza di essere umano, che poi è la finitezza dell’umanità, apprezzandola ed esaltandola; accogliendola come qualcosa che rende la nostra vita, per il solo fatto di essere mortale, come un dono prezioso e che non sarebbe più tale se non ci fosse una fine. La fine che tutti temono è, per Novecento, la peculiarità più importante da difendere e l’immensità, la vastità, l’eternità a cui tutti aspirano diventa qualcosa da guardare con diffidenza, talvolta con disinteresse, talvolta con paura.
Proprio come i tasti del suo pianoforte, dal numero certo e predefinito, Novecento sa che la fine della vita non preclude la possibilità di fare di essa una musica straordinaria e infinita e quindi in quest’ottica, il messaggio da leggere (neanche troppo velatamente) tra le righe potrebbe essere il pensiero che non è da cercare l’eternità e l’infinito della nostra vita, ma l’eternità e l’infinito all’interno di noi, nella nostra vita finita, con tutti i suoi limiti.
Sotto questo profilo non è troppo difficile capire perché si è andati verso la scelta del monologo teatrale. Le modalità espressive del teatro ben esprimono un concetto simile: esiste uno spazio preciso e specifico, chiamato palcoscenico, sul quale si rappresentano i drammi umani. L’esistenza smette di essere solo al di fuori di quel palcoscenico e tutto ciò che ci sta intorno (quinte e pubblico) svelano la finzione. Il palcoscenico no. Il palcoscenico, lo spazio delimitato marcatamente e in modo deciso, è lo spazio della verità, che poi è lo spazio stesso della vita e dell’arte. Da qui, ovviamente, non potevo fare a meno che cadere nei miei trip filosofici sull’arte e sui suoi significati più profondi. Già prima ero convinta che lo scopo primario dell’arte, quale essa sia, fosse quello di dire la verità, di suggerire un punto di vista, una visione delle cose; più reale della quotidianità stessa. “Novecento” non ha fatto altro che avvalorare questa tesi, aggiungendoci anche un’altra riflessione. Perché se è vero che ogni forma d’arte ha la sua struttura, le sue regole e i suoi limiti, è anche vero che il bravo artista è colui che sa utilizzare quei limiti, trasformando la verità in qualcosa di creativo. Andare oltre le regole dell’arte, della grammatica italiana, andare oltre lo spartito musicale, non significa superare sé stessi, ma in un certo senso, barare. Bravo è colui che, invece, crea qualcosa di nuovo e vero all’interno di una forma comunicativa con regole precise. Insomma, per dirla più semplice, le note sono sette e non sei un musicista di talento se tenti di inventartene un’ottava, ma avrai talento quando ricomporrai, in quel limite, in e con quelle sette note, una musica infinita.
D’accordo, forse mi sono lasciata trasportare dai miei pensieri, lasciando il Virginian in alto mare e ben distante da questa recensione. Eppure sono convinta che la chiave di questa storia sia questa. Baricco, se ho azzeccato il punto batti un colpo, please!
Vi lascio, quindi con questa riflessione, sperando di stimolarvi, sia alla lettura che al pensiero filosofico che ho iniziato a rielaborare dentro di me da quando ho letto “Novecento”.
Vi auguro una buona serata, una buona notte e un buon inizio settimana! Alla prossima!

-Liù

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