venerdì 11 ottobre 2019

Narrativa - Capitolo 20


Buon giorno a tutti!
Grazie al cielo ho finito questo romanzo, non ne potevo più!
Non ne potevo più di leggerlo, non ne potevo più di averlo attorno, non ne potevo più di dovermelo portare appresso e ancora non mi capacito di come io possa essere riuscita a finirlo. Non mi capacito di come la scrittrice possa essere riuscita a finirlo, pensate.
Eppure dovevo, miei cari lettori! Dovevo giungere fin qui, oggi, per testimoniare cosa mi è capitato per le mani e avevo bisogno di analizzare con voi gli incidenti narrativi in cui l’autrice de “L’anno del diavolo” è rovinosamente inciampata.
Sono state fra le centosettanta pagine più lunghe della storia della narrativa e non per la noia, ma per la mia indignazione, che a circa ogni pagina interrompeva la lettura ed esplodeva come un vulcano, come un fiume in piena, come i barbari prossimi all’invasione dell’Impero romano.
Ho strabuzzato gli occhi dopo aver letto il cacofonico “avrebbe già dovuto aver vissuto”. Non sto scherzando, è una frase realmente introdotta nel testo.
Mi sono cascate le braccia alla vista delle emoticon inserite dopo le frasi che i due protagonisti si scambiano via messaggio. Le emoticon, capite?
Non ho assolutamente retto il “…donne degne di esser chiamate tali…”. Qui la gastrite ha prevalso. Irrimediabilmente.
Le perplessità sono tante e il desiderio di sfogarle tutte in un colpo solo è forte, ma cerchiamo di procedere con ordine andando per gradi e partendo dalla trama, dove vediamo subito una tranquilla e pacata anziana signora, Maria, alle prese con una brutta forma di tumore.
Se fosse stato tutto qui, il succo del discorso, avrei fatto i salti di gioia. Se davvero questo romanzo avesse voluto parlare di una lotta personale contro un mostro persistente e feroce, che possiede tutti i presupposti per vincere; se ci fossimo concentrati sulla malattia, il suo decorso, la cura quasi più dolorosa del male stesso, sul rapporto vero e sincero con lo schivo marito, sull’amicizia che li vedeva entrambi legati a un’altra coppia di simpatici pensionati e se tutto questo fosse servito da riflessione sui grandi concetti di “vita” e “morte”, su cosa riesce a sopravviverci, cose come l’amore e l’amicizia, se ci fosse stata anche una minima parvenza di ciò, allora sarebbe stato un libro discreto, che avrei avuto piacere di leggere per distrarmi da letture più impegnative.
La prima parte della storia, infatti, è maggiormente incentrata su queste due coppie di amici ed è anche la parte meglio riuscita. La salvo e ci sto rimettendo, quindi non ditemi che non sono buona.
Quel “Tu…? Rosa…? Ehi, amico!” non mi è proprio piaciuto detto da un anziano signore che fino a quel momento aveva avuto tutta l’aria di essere un uomo distinto e dal gran riserbo. Il linguaggio da finto rapper potremmo anche lasciarlo ai giovani, che dite? Tuttavia, salvo qualche piccola stonatura di queste dimensioni, l’inizio della nostra storia potrebbe anche starci.
L’atmosfera casalinga e amichevole del pranzo intimo che viene descritto è forse il pezzo migliore. Non è privo di pecche e a dirla tutta non è nemmeno una parte fondamentale, ma l’ambiente familiare e i profumi descritti del tipico pranzo domenicale in autunno, qui nel nord Italia, ha il suo perché.
Da qui in poi l’unico fulcro di tutta la narrazione non sarà più Maria, ma sua figlia Vera.
Vera è: una donna in carriera ma alla mano, testarda ma dolce, umile ma orgogliosa, forte ma debole, bianco ma anche un po’ nero. Una caratterizzazione perfetta.
Per quel che ne sapevo io, le sfumature caratteriali funzionano in modo tale che se do ai miei personaggi il potere di compiere determinate scelte, lo faccio motivando quelle scelte sulla base del loro approccio alla vita e alla loro voglia di trovare una soluzione.
L’autore non è legittimato a prendere una manciata di aggettivi a caso, lanciarli un po’ di qui e un po’ di là nelle varie pagine, senza neanche dare conferma di ciò attraverso i comportamenti e le azioni che quei personaggi compiono nel corso della storia.
Questa non è capacità di mostrare sfumature, è pressapochismo, che è una cosa ben diversa.
Vera, invece, pare essere tutto e il contrario di tutto. Ovviamente in positivo! Ovviamente Vera prevale sull’enorme e grigia massa di altre donne che al suo confronto sono tutte sciacquette senza un minimo di grinta e che quindi non rientrano di certo nella categoria “donne degne di esser chiamate tali”.
Una donna che non ama farsi vedere, ne porsi su un piedistallo, ma il cui portafortuna è un paio di décolleté rosso fuoco.
Che personaggio speciale! Proprio come il rumore dei suoi passi: veloci e decisi, ma familiari e rassicuranti.
Allora, chiariamo un paio di cose. Prima di tutto, i passi di una persona o sono veloci e decisi, o sono familiari e rassicuranti. Non entrambe le cose. Secondariamente non puoi dire che riconosci il rumore dei suoi passi da queste caratteristiche, come se al mondo non ci fosse nessun’altro dal passo veloce, deciso, familiare, o rassicurante.
Sembra una presa per i fondelli, ma certe parti di questo libro sono talmente contorte che è già tanto se si riesce a trovare un capo del filo per orientarsi nell’oceano delle assurdità ivi descritte.
Comunque Vera è così, una donna speciale! Non ama mettersi in mostra. Quindi, direte voi, è timida? No! Quindi è esuberante e solare. E la coerenza è partita per le Fiji.
Una donna dinamica, che non si ferma mai, ma che si concede il lusso dei parchi termali perché, testuali parole del testo, “facevano molto chic”. Capite? Facevano molto chic! Inutile dirvi che qui mi è venuto un infarto.
E come avrete sicuramente capito è anche una donna molto intelligente e profonda. Immagino si fosse intuito dal fatto delle terme.
Così appare agli occhi del lettore. Agli occhi ormai sanguinanti del lettore, ma fa niente.
Una donna che è affascinata dallo sfarzo e dall’eleganza di un matrimonio, che si dice entusiasta di farne parte, ma che allo stesso tempo si stente estranea a quel mondo, goffa, quasi fuori posto.
Mi chiedo, poi, cosa ci possa essere di tanto sfarzoso in un matrimonio in un vigneto, quando l’unica cosa descritta che potrebbe non essere presente in un normalissimo matrimonio come tanti altri sono gli invitati altolocati. Tra l’altro mi ha parecchio stupito il fatto che tale matrimonio venisse descritto come “americano” quando probabilmente in America, un matrimonio in un vigneto, lo descriverebbero come “italiano”. Ma a questo punto chi se ne importa, giusto? Cavolata più, cavolata meno…
Vera è una donna forte e profonda, che a suo stesso dire è sempre presente per tutti, ma nessuno deve risentire delle sue vicissitudini personali. E questo lo dice lei a proposito di sé stessa. Giusto per dirvi quanto è modesta.
In ogni caso è in buona compagnia, perché anche Massimo, la parte maschile della loro storia d’amore sbocciata fra le pagine di questo libro, pare essere un uomo onnipotente. Intuito infallibile, grande stile (ancora non ho capito cosa ci possa interessare dei vestiti che indossa, ma quello è un altro discorso), grande amatore. Che vero maschio alfa! E Vera è l’unica che riesce a tenergli testa! Avevate dei dubbi a riguardo?
Possiamo continuare coi personaggi, se volete! Il dottor Gaeti è un'altra figura descritta benissimo, visto che pare essere un eccellente dottore con kilometri e kilometri di esperienza nelle zone di guerra, dove sicuramente ne avrà viste di cotte e di crude. Ma lui da chi rimane colpito? Dalla sua paziente Maria perché è pacata e composta e per questo si convince che deve fare di tutto per salvarla. Tranne annullare il suo matrimonio, ovviamente.
Ha un senso quello che sto descrivendo? No, un senso non c’è neanche a pagarlo e “L’anno del diavolo” è tutto così. Tutto. Ogni santissima riga. Poco chiaro, nebuloso, oltremodo contraddittorio e con una protagonista, ahimè la figlia e non la madre, che risulta una Mary Sue incoerente ed insopportabile.
Quindi, ricapitolando: lessico e grammatica che lasciano a desiderare, caratterizzazione dei personaggi pessima, cosa abbiamo dimenticato? Ah si! Il senso di tutta la storia. Qual è il punto? Qual è lo scopo finale? Cosa vuole dirci l’autrice con la sua opera? Vuole parlarci della perdita? Vuole parlarci della morte? Perché se lo fa, mi dispiace, ma lo fa male. Lo fa male perché non si capisce e perché si arriva all’ultima pagina senza avere ben chiaro quale sia questo benedetto punto.
Se non altro ci si arriva con un enorme sospiro di sollievo per averlo finalmente finito.
Mi dispiace e credetemi, mi dispiace sul serio, ma non consiglio questo romanzo a nessuno e non lo trovo scritto bene. Per quanto mi riguarda non è scritto bene a proposito di un’infinita serie di aspetti che ancora fatico a mettere in ordine e che spero, almeno in larga parte, di essere riuscita ad esporre.
In ogni caso, se siete interessati agli approfondimenti, posso prestarvi la mia copia del libro, le cui pagine sono accuratamente state riempite dei più svariati commenti.
Se avete voglia di leggere un libro sulla morte, sull’amore, sulla perdita e perché no anche sulla bellezza e fragilità della vita… Ecco, non leggete questo. Leggete Marquez, per favore.
Detto ciò io vi saluto e vi auguro buone letture!
Alla prossima, amici!
-Liù

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