venerdì 24 luglio 2020

Saggio - Capitolo 17




Buongiorno a tutti.
Il mio compleanno è stato proprio all’inizio del lockdown, quando tutto, ma proprio tutto si è fermato, quindi non ho potuto festeggiarlo né con la mia famiglia, né con gli amici. Ora che però la vita ha ricominciato a scorrere pian piano (con le dovute precauzioni, mi raccomando!) sono arrivati alcuni regali.
Per questa occasione, infatti, lascio sempre una wishlist di libri nelle mani di mia madre o di mio fratello, da cui chi vuole può attingere senza sbattersi per trovare un’idea, diciamo “andando a colpo sicuro”. Grazie a quella lista ho infatti ottenuto 10 dei libri che desideravo, e oggi vi parlo di uno di questi.
Ho scoperto questo titolo per caso, quando ad un corso che sto frequentando abbiamo parlato di case editrici e di editoria, e ci è stato fornito un elenco di case editrici “nuove”, o comunque recenti, non storiche, da cui abbiamo dovuto sviluppare un approfondimento. La scelta che ho fatto io è stata proprio selezionare la Effequ, casa editrice toscana, di cui avevo acquistato tre libri, tra cui “No. Del rifiuto, di come si subisce e di come si agisce e del suo essere un problema essenzialmente maschile.” di Lorenzo Gasparrini, a cui sicuramente farò un commento anche se sono in attesa, perché mi piacerebbe molto prima leggere altri suoi libri, che sono nella wishlist. Accanto a questo mi è stato regalato “Femminili singolari” di Vera Gheno. A parte che adoro le copertine di questa collana “Saggi Pop”, tutte nere con le scritte colorate, l’argomento è molto sentito; si parla infatti delle declinazioni femminili singolari delle professioni.
Essendo l’autrice una linguista ho trovato illuminante alcune sue argomentazioni. Faccio un mea culpa, e ammetto che spesso mi sento una Grammar nazi, anche se in realtà non sono affatto un’esperta, anzi da vera pivella spesso mi faccio traviare nella scelta dell’utilizzo di termini o di tempi verbali dal come suonano al mio orecchio. Scelgo spesso infatti il termine che “mi suona meglio”, ma come viene spiegato molto bene in questo libro non è il suono a rendere corretta una parola. Forse in questo veniamo tratti in inganno dalla credenza e dalla convinzione così radicata della lingua italiana come molto melodica. Vera Gheno però ci porta alcuni esempi di termini che sono musicalmente non armoniosi e che comunque ci troviamo ad utilizzare per necessità. Ricorda inoltre, e questo è un punto fondamentale, che la lingua è il modo che le persone usano per comunicare, e diversamente dalla matematica non è una scienza esatta. Come le persone cambiano e si modificano, lo stesso fa la lingua che esse parlano.
Parallelamente, il libro tratta la problematica culturale dell’accettazione dell’introduzione di nuovi termini nel dizionario (che come l’autrice ricorda, non è deciso dall’Accademia della Crusca o dai vari Zingarelli, Treccani ecc. ma dall’utilizzo più o meno massiccio che di quei termini fa la popolazione). Tra questi termini ce ne sono alcuni che passano sotto silenzio, senza particolari dispute o discussioni, altri invece scatenano delle vere e proprie battaglie, ed è il caso dei femminili singolari.
Premetto che tutto ciò che ho letto in questo libro è stato una novità, quindi non sapevo che i termini “dottoressa”, “contessa” e via dicendo facessero originariamente riferimento, non ad una qualifica professionale, ma all’essere moglie di un dottore o un conte o altro. Anche per questo si cerca oggi di declinare al femminile i termini che sono nuovi, e che fanno riferimento a professioni fino a non molto tempo fa inaccessibili alle donne, senza l’utilizzo del suffisso, come avvocata, sindaca, ministra ecc.
Molte persone, e io mi inserisco ahimè tra queste, hanno sempre rifiutato questi termini per una questione di suono, e tantissimi le rifiutano ancora. Leggere questo libro però mi ha fatto riflettere ed effettivamente questa sembra più che altro una scusa: l’assonanza o il “suonare bene” è dato anche dall’abitudine all’utilizzo e all’ascolto di quel termine. Diversi commenti che l’autrice riporta nel libro citano per argomentare l’astio nei confronti del termine “ministra” l’assonanza con “minestra” (che di per sé non centra niente), ma il termine “minestra” somiglia molto anche alla parola “maestra”, nessuno però ha mai avuto problemi nel chiamare così le insegnanti dei propri figli. Il termine maestra infatti è in uso da un tempo molto più lungo.
Mi duole ammettere che molte resistenze nell’utilizzo dei femminili singolari vengono proprio dalle donne, che spesso sostengono che l’uso di questi termini sia una sciocchezza rispetto invece ad altre problematiche più grandi ed importanti, ma è anche vero che bisogna partire dalle piccole cose, per cambiare quelle più grandi. Quando in una relazione ci sono dei problemi, spesso la prima difficoltà riportata è l’essere dati per scontati, quindi il non ricevere le piccole attenzioni dell’altro (sto un po’ banalizzando per far passare il concetto, perdonatemi). Il cambiamento non può avvenire radicalmente, e tutti noi dovremmo esserne consapevoli, e per questo è importante chiamare le cose con il loro nome. Potrebbe essere esemplificativa la metafora della rana nell’acqua bollente: se si butta una rana in una pentola d’acqua che bolle, quella salterà via, ma se questa venisse immersa nell’acqua fredda, che pian piano si scalda fino al bollore, non si renderebbe nemmeno conto del cambiamento di temperatura.
Non partire dall’uso di questi termini potrebbe significare non partire affatto. Certo che è giusto battersi per le problematiche più grandi, ed è su quelle che probabilmente bisogna martellare con gli adulti, ma introdurre questi termini nell’uso quotidiano farà sì che suonino familiari almeno alle generazioni future, per cui probabilmente a loro non suonerà affatto strano sentire chiamare in causa l’avvocata, la sindaca eccetera. Di conseguenza non dovrebbe essere un problema per le donne l’accesso a quella professione.
Trovo inoltre degno di nota che l’introduzione di termini maschili per professioni inizialmente considerate esclusivamente femminili sia invece passata sotto silenzio (vedi ad esempio “infermiere”).
Ma non voglio togliervi il piacere di leggere direttamente dalle parole di Vera Gheno, linguista, l’argomentazione alla base dell’utilizzo o meno dei femminili singolari.
A presto.
-Pearl

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