lunedì 3 ottobre 2016

Narrativa - Capitolo 4


Salve salvino caro lettore!
Prima o poi organizzerò meglio il mio tempo in modo da fare uscire la recensione il giorno giusto, impegni a parte. Intanto, vi prego e scongiuro, apprezzate lo sforzo e abbiate pazienza. Oggi arrivo con un libro fresco fresco di lettura appena conclusa (e va bene, lo confesso: mi mancano le ultime pagine, ma vi giuro che me ne mancano pochissime e qualcosa da dire già ce l’ho, mentre la pazienza, invece, scarseggia!).
“Cloud atlas”, di David Mitchell, è un romanzo

complesso, ambizioso, interessato a più temi e sicuramente molto più affascinante del film. La trasposizione cinematografica mi aveva fatto parecchio schifo e non avevo avuto paura di esprimere il mio sdegno nei più svariati modi, nonché la mia delusione nel vedere Tom Hanks parlare come un primitivo e attori del calibro di Susan Sarandon e Ben Wishaw impiegati così male. Tuttavia, adesso, ho di parecchio cambiato posizione. Già il libro non deve essere stato per niente facile da scrivere, figurarsi l’orchestrazione dei tantissimi personaggi principali all’interno del film, per arrivare almeno a qualcosa che avesse un minimo senso non solo estetico, ma anche logico e il tutto senza tradire i messaggi del romanzo da cui sono state tratte le storie.
Si, “L’atlante delle nuvole” è un romanzo ambizioso, data la pretesa di concentrare in poco meno di seicento pagine sei storie completamente diverse tra loro e allo stesso tempo unite da un unico, a tratti vago, filo conduttore. Ci sono, appunto, sei racconti diversi, ambientati in sei epoche diverse, con sei linguaggi diversi e sei  format, o stili di scrittura, diversi (dal diario di bordo all’intervista, dal romanzo epistolare al reportage). Lo scrittore si impersona gentiluomo ottocentesco, compositore omosessuale, giornalista, anziano, rivoluzionaria, pseudo-reietto della sua comunità, ma anche cattivo, antagonista, ignorante, illuso. Trovo difficile che ad un unico lettore, specie se di gusti più definiti dei miei, possano piacere completamente tutte le storie narrate e quindi possa apprezzare il libro nella sua interezza, ma Mitchell ha rischiato, sapendo che poteva fallire come riuscire ad avere successo e la cosa, per quanto mi riguarda, può essere totalmente premiata. Qualcosa che lega tutto il romanzo, in qualche modo, c’è. Qualcosa che probabilmente lo stesso scrittore non ha voluto svelare troppo, lasciando poi al singolo fruitore il compito di dare una sua personale spiegazione. Già il solo fatto che chi legge può scegliere come procedere nella lettura, da un certo segnale, visto che le prime cinque storie sono “tagliate a metà” e che quindi io posso decidere autonomamente se leggere seguendo la numerazione delle pagine come un qualsiasi altro libro o se invece sia meglio saltare le pagine, concludere la storia, per poi tornare indietro ed iniziarne una nuova. Mi rendo conto che non sia una spiegazione molto chiara, ma è proprio così che funziona. Dovete immaginarvi questo romanzo come una serie di cerchi, uno posto all’interno dell’altro, le cui storie narrate procedono su binari sempre paralleli, i quali pur non scontrandosi mai coi loro vicini, danno comunque ai personaggi la sensazione di avere qualcosa che li accomuna tutti. Questa particolare matrioska non mi risulta abbia precedenti letterari, anche se sono abbastanza sicura di essere io l’ignorante e di non conoscere abbastanza libri, ma nonostante questo resto comunque sorpresa da ciò che, in ogni caso, mi sembra un’idea non banale e soprattutto difficile da realizzare. Per dare un’idea delle molteplici sfumature preferisco dividere le storie, anche se sono convinta che non sia esattamente questo il modo giusto di affrontare il libro, ma il modo giusto è leggerlo, quindi mi considero scusata.
La prima storia è ambientata per la maggior parte del tempo su una nave, la Prophetess, dove il nostro protagonista, un gentiluomo americano esperto di legge, scrive un diario di bordo, raccontando del suo viaggio in mezzo all’oceano. La cosa che apprezzo maggiormente di questa storia è il fatto che il personaggio principale non viene caratterizzato pensando all’epoca contemporanea, ma a quella in cui egli stesso vive, conferendo più realismo alle vicende, che sono presentate con delle riflessioni abbastanza razziste sugli indigeni che il protagonista incontra durante il suo percorso, anche senza ch’egli sia consapevole di tali pregiudizi, poiché all’epoca era la normalità considerare determinate persone inferiori rispetto ad altri. Nonostante questo e nonostante l’attaccamento malsano ad alcuni precetti religiosi scorretti, Adam Ewing rimane un personaggio positivo e qualcosa mi dice che rivedrà ben presto le sue posizioni circa gli indigeni e il loro rapporto coi caucasici cristiani. Non è fra le storie che mi hanno colpito di più, ma la trovo godibile.
La seconda storia che ci viene presentata è trattata attraverso delle lettere tra due amici ed è ambientata all’inizio degli anni ’30, quasi interamente a Zedelghem, in Belgio. Zedelghem è il punto di approdo di un giovane squattrinato musicista, inglese e bisessuale, che cercando di mantenersi senza l’aiuto dei familiari si propone come aiutante di un vecchio compositore ormai malato e al tramonto della sua carriera, nella cui casa scopre il diario di bordo del protagonista della storia precedente.
Per Robert Frobisher qualsiasi cosa è fonte di musica; ad ogni persona, sbuffo, singulto corrisponde uno strumento musicale, se non una vera e propria melodia.

Ho dato un’occhiata al vicolo: scrivani tiranneggiati che si agitavano rumorosamente come mezze semicrome in un allegro beethoveniano.

Oppure: Sono salito in carrozza solo quando il fischio della locomotiva suonava una danza gitana con l’ottavino.

E ancora: I tubi stridono come zie anziane.

L’inizio di questa storia è pura poesia, una musica per orchestra, una performance artistica (di sicuro David Mitchell sa chi è John Cage e andando avanti con le altre storie ne ho avuto conferma).
I tratti romantici della prima storia vengono smantellati dall’irriverenza frizzante del novecento, espressa da un personaggio snob, vanitoso, terribilmente acuto e con una vena decadente. Sul finale della prima parte di questo pezzo del romanzo, sono convinta che ci sia anche un velato riferimento alla psicanalisi.
Il nostro eccentrico musicista è destinato a comporre un’importante musica, a cui darà il nome di: “L’atlante delle nuvole”, che sarà destinata a sconfiggere le barriere del tempo per approdare nelle mani della terza protagonista: la giornalista Luisa Rey. Luisa vive a Buenas Yerbas negli anni settanta e a seguito di un incontro in ascensore con l’ormai anziano amico di Frobisher, Sixsmith, cerca di smascherare una multinazionale che traffica col nucleare. Cosa non facile se si pensa alla quantità di corruzione che la società in questione trascina con sé, oltre ad un killer professionista senza scrupoli e ad una realtà, quella dell’America degli anni settanta, che non guardava come oggi all’ambiente. Il giornalista è una figura, per così dire, classica, di cui il narratore si serve spesso per caratterizzare un personaggio incorruttibile, pericolosamente onesto, combattente, devoto alla verità e qui, infatti, diventa il personaggio ideale per combattere il consumismo tiranno.
In questa terza storia non guardiamo solo con gli occhi di Luisa Rey, ma anche con quelli del suo antagonista, che si adopera in una riflessione consistente sul potere e su ciò che è necessario fare per ottenerlo. Un discorso, questo, in cui non si giustifica il cattivo della vicenda, ma che lo mostra per quello che è, con tutta la sua povertà morale, ma anche di intelligenza. Un discorso che avanza per frasi fatte, per “sentito dire” e che resta incapace di sviluppare ragionamenti personali profondi, autonomi; qualcuno che non pensa con la sua testa, ma che da voce ad un istinto condizionato da dogmi sociali ingiusti, che resta ingiustificabile sotto ogni punto di vista. Attorno a questi, appare un altro coro consistente di personaggi, più o meno positivi, più o meno forti, i quali si avvicinano anche al tema del femminismo, senza sfiorarlo mai davvero. Inutile dire che le vicende a cardiopalma di Luisa Rey, sotto forma di romanzo, capitomboleranno nelle mani del quarto protagonista.
L’inizio della quarta storia è ambientata ai giorni nostri e vede come personaggio principale un vecchio editore di nome Timothy Cavendish, con la sua “tremenda ordalia”. Quando per sfuggire ai suoi strozzini, Cavendish cerca di nascondersi, finisce rinchiuso in un ospizio contro la sua volontà e  per ricominciare a vivere la sua vita, tenterà in tutti i modi di evadere dalla prigione in cui è stato rinchiuso. Ad aiutarlo sono presenti i suoi co-prigionieri, che come lui vogliono ritornare nel mondo reale, privo di infermiere despota ben oltre il limite della denuncia. Una delle più grandi tragedie del nostro tempo è quindi la terza (e quarta) età, composta da persone sveglie, intelligenti, che racchiudono la saggezza dei tempi passati, ma che le generazioni nuove tendono ad accantonare, dimenticare, porre in un angolo, forse perché troppo vicine alla morte e troppo poco ai ritmi moderni, ma ancora dotate di una vivacità di pensiero sempre giovane.
Cavendish è un uomo debole, con difetti caratteriali accentuati dall’età e con un forte umorismo intellettuale di chi conosce i libri e lavora con essi; una figura per la maggior parte lenta e per questo considerata in difetto, incapace di far fronte alla velocità dei nostri giorni. La sua ordalia si trasformerà, infatti, in una commedia cinematografica per il mondo presentato nella storia successiva, ambientata in un futuro fatto di luci e consumismo, dove è un obbligo legale spendere una quantità predefinita di denaro in uno spazio predefinito di tempo; l’idea che anche se non vuoi, devi spendere, devi consumare. La quinta protagonista è Sonmi-451 che attraverso un’intervista precedente la sua esecuzione capitale ci racconta la sua storia come clone-cameriera in un fast-food di una Corea futurista e di come si sia trasformata nel simbolo della rivoluzione contro la dittatura sovrana. Come? Semplice: cominciando a pensare con la sua testa. Reputo questa la storia più forte da un punto di vista etico.

La risata è anarchica e blasfema. I tiranni fanno bene a temerla.

Penso che questa sia la storia che abbia sofferto maggiormente nella trasposizione sul grande schermo; una mancanza sicuramente dovuta alla sua complessità, piuttosto che alle scelte dei registi. Il libro da l’opportunità di ampliare il quadro visivo e di raccontare dettagli importanti che non credo fosse possibile inserire nel film, come la figura di Hae-Joo che al cinema non si riesce a vedere completamente come nella versione cartacea e si trasforma in un personaggio completamente diverso, con uno scopo completamente diverso. Inoltre, l’intervista a Sonmi e il racconto del suo mondo, prepara alla storia successiva, l’ultima ed il vero cuore del romanzo; il cerchio più interno, la matrioska più piccola. Zachry vive in un mondo post-apocalittico, in un villaggio che a fatica conserva ancora echi delle vecchie civiltà, ma che ha perso tutta la conoscenza scientifica e culturale precedente; dove la dea che viene venerata dal suo popolo si chiama Sonmi, anche se nessuno conosce la sua vera storia. Quando nel suo villaggio, precisamente a casa sua, si stabilizzerà per un lungo periodo di tempo la presciente Meronima, da me considerata come l’ultima antropologa della storia umana, le cose cambieranno e Zachry dovrà affrontare le sue paure, scendere a patti coi suoi demoni e affrontare nuove tragedie.

Ma quella notte non ho mica chiuso occhio, con le zanze, gli uccelli notturni e i rospi che cantavano e con un essere misterioso che s’aggirava furtivo nel nostro nido, sollevava oggetti qua e là e li spostava, e il suo nome era Cambiamento.

La tribù di Zachry ed egli stesso parlano un linguaggio strano, quasi primitivo; segno che i tempi d’oro dell’umanità sono ormai finiti, ma risulta essere anche il pretesto per parlare di civiltà e per riflettere su come essa sia fatta di parole, proprio perché è fatta di condivisione e scambio. La parola viene anche ragionata come qualcosa di cui diffidare, che inganna. Il linguaggio, insomma, viene analizzato su più fronti e il tema della civiltà, contrapposto alla figura dei selvaggi, è l’essenza di tutto il racconto, probabilmente anche di tutto il libro.
Ora, dopo tutta questa lunga, eterna, infinita riflessione, i casi sono due: o David Mitchell ha una grave forma di personalità multipla, o è stato incredibilmente bravo ad architettare, giostrare, misurare e cucire insieme tutti questi elementi, già così complessi se presi singolarmente, figuriamoci se intersecati gli uni agli altri. Per scrivere un libro di questa portata, sono convinta che sia necessaria una vasta conoscenza di: musica, linguaggio e lessico, letteratura, scienza, storia, geografia e geopolitica, unite ad una dose massiccia di creatività.
Il legame che collega le sei storie potrebbe sembrare debole, forse a tratti lo è, ma chiedetevi questo: c’è anche solo una di queste sei storie che potrebbe sopravvivere singolarmente? No, per me no. Probabilmente non ho una spiegazione logica per questa risposta, è qualcosa che si percepisce, come quando si è davanti ad un’orchestra fatta di strumenti completamente diversi, i quali producono suoni completamente diversi, ma che guardano tutti allo stesso spartito.
Detto questo io vi saluto, la prossima volta recensisco la Pimpa, buona serata e buon inizio settimana!

-Liù

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