venerdì 15 febbraio 2019

Teatro - Atto VI

Buongiorno Ladies and Gentelman!
Giuro, io non l’ho fatto apposta. Quando ho deciso di recensire “L’importanza di chiamarsi Ernesto” per questa settimana, non sapevo che la prima teatrale di questa commedia si fosse svolta il 14 Febbraio del 1895.

Per la precisione al St. Jame’s Theatre di Londra; il palcoscenico che ha visto tale debutto.
Si, ho una dipendenza nei confronti di Wikipedia e non c’è speranza.
Comunque, la data sembra essere l’unica vera assonanza col giorno di S. Valentino, sebbene all’interno della storia rappresentata possiamo trovare due coppie di innamorati che tentano con ogni mezzo possibile di convolare a nozze. Perché nonostante la presenza di ben quattro giovani aspiranti sposi, sembra che non fosse nelle intenzioni di Wilde mettere in scena le vicende di qualche grande amore, quanto piuttosto una comica parodia dello stesso; un insieme di sentimenti basati su principi frivoli e superficiali.
Per chi non conoscesse la storia possiamo riassumerla in poche righe. Questa commedia, divisa in tre atti, porta sul palcoscenico le vicende di Jack Worthing e del suo amico Algernon Moncrieff, entrambi impegnati con una doppia identità che permette loro di mantenere immacolato il loro buon nome e la loro reputazione.
Trovandosi entrambi, dopo una serie di eventi, burle, scambi ed errori, a fingere di chiamarsi Ernest, tale menzogna si ritorcerà loro contro.
Infatti, le due fanciulle alle quali rivolgeranno la propria proposta di matrimonio, Gwendolen e Cecily, si dichiareranno profondamente innamorate dei rispettivi corteggiatori grazie ad un solo ed unico motivo: perché credono che entrambi si chiamino Ernest. Un nome che le due ragazze hanno sempre sognato di avere al loro fianco, certe che chiunque possegga un nome tanto importante non potrà che essere una persona seria, onesta e amabile.
La vuotezza, la gaia frivolezza e l’attenzione all’apparenza dell’alta società aristocratica vittoriana vengono qui raccontate con il cinismo e la comicità tipiche di Wilde, che non perde occasione di mettere in ridicolo una classe sociale ben conosciuta dallo scrittore e con la quale, forse, ha vissuto anche a stretto contatto.
In quest’opera non vi troviamo nessuna denuncia sociale, ma la critica c’è e al contrario delle sagaci battute di Wilde, non è leggera.
L’identità del personaggio coincide col suo ruolo sociale e il ruolo sociale viene perso o guadagnato sulla base di un codice morale rigido e severo, ma alcune volte anche contraddittorio.
Jack è conosciuto come un nobile di campagna tranquillo e giudizioso. Il suo animo, però, ha bisogno di un momento di svago e di distacco dalla serietà che lo contraddistingue quotidianamente; una piccola parentesi nella sua vita che non intacchi il suo buon nome. Da questa necessità nasce inizialmente Ernest, che in città è conosciuto come un libertino e scapestrato aristocratico. Ernest però, per il solo fatto di chiamarsi con quel nome, conquista la fiducia, nonché il cuore, dell’amata Gwendolen.
Ernest non paga il conto del ristorante, si muove nella vita mondana, è eccentrico e a tratti dissoluto, ma pur essendo libertino, è accettato nel suo gruppo sociale: a Londra. E allo stesso tempo sembra comunque necessario che Jack nasconda questa doppia identità alle sue conoscenze quotidiane in campagna, nella sua vita reale, perché in quel contesto non si addicono al suo ruolo.
Come se non bastasse la madre di Gwendolen, con la quale Jack-Ernest avrà un colloquio per la mano della figlia, non sembra interessata al suo stile di vita, quanto piuttosto al nome della famiglia che Jack dovrebbe portarsi appresso e che non è in grado di presentare all’udienza con la futura suocera, in quanto trovatello abbandonato da neonato alla stazione.
Insomma, abbiamo capito che qui la forma è infinitamente più importante della sostanza, che si può giudicare un libro dalla copertina…

Miss Prism: Non parlare con disprezzo dei romanzi in tre volumi, Cecily. Anch’io ne ho scritto uno nella mia giovinezza.
Cecily: Davvero Miss Prism? Com’è brava e intelligente! Spero non andasse a finir bene. Non mi piacciono i romanzi che finiscono bene. Mi deprimono tanto!
Miss Prism: I buoni finivano bene e i cattivi finivano male. Questo è il significato della narrativa.


…E da vero dandy qual è stato, Wilde si fa beffe di questa superficialità attraverso la sua immensa dote oratoria e la sua grande padronanza del lessico, ma soprattutto attraverso la grande capacità di giocare con le parole, i modi di dire, le consuetudini. Ribalta una realtà di per sé illogica, svelandone tutte le assurdità.
Questa brillante opera non è soltanto divertente, è anche piena di arguzia e sagacia e vi posso assicurare che la concluderete con le lacrime agli occhi, tenendovi la pancia.
Ve la consiglio caldamente e se potete, ovviamente, andate a vederla a teatro.
Io vi auguro buon weekend, buon San Valentino e per chi è delle mie parti anche buon San Faustino.
Alla prossima, lettori!

-Liù

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