venerdì 19 luglio 2019

Teatro - Atto VII


Buongiorno lettori!
Non posso credere di non avervi ancora parlato di quest’opera teatrale! Ero assolutamente convinta di averlo fatto! Mannaggia a me e alla mia memoria!
Siete gli unici che, almeno fino ad ora, si sono salvati dal mio sproloquio senza tempo circa l’ “Aminta” di Torquato Tasso. Ma non resterà così per molto, cari miei! Quindi mettetevi comodi, perché io alla corte d’Este sogno di andarci da tempo immemore!
Cosa ci azzeccheranno gli Este con questa favola pastorale di ninfe e satiri, vi chiederete voi? Ci azzecca tutto, miei cari amici! Primo perché i personaggi alla ribalta rispecchiano dei personaggi realmente esistiti e vissuti in quella corte, tra cui Tasso stesso. E da qui né consegue che egli scriveva a Ferrara, proprio a servizio degli Este.
Il cinquecento è stato, per il teatro, un momento particolare. Un periodo storico in cui i poeti e i drammaturghi, finanziati dalle famiglie potenti e possidenti, elogiavano nelle loro opere i loro signori, gettando su di loro sfarzo e lustro con le parole più poetiche che si potessero pensare, scintillanti come oro prezioso e dolci come miele, ma anche eterne e scolpite nella pietra per giungere fino a noi.
Insomma, questi signori nobili e vanesi, gira e rigira, cercavano modi sempre nuovi per assicurarsi l’immortalità.

Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel ch’io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d’opera d’inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.


Ok, questo era Ariosto con il suo “Orlando furioso”, ma credo che renda decisamente l’idea.
Così come Ariosto, anche Tasso era a servizio in una corte e si guadagnava da vivere dilettando un pubblico ricco e nobile attraverso ciò che sapeva fare meglio: i suoi versi e i suoi spettacoli teatrali.
Nel caso dell’ “Aminta”, Tasso mise in scena quella che viene chiamata “favola pastorale”, o “commedia pastorale”. Questo genere vedeva un’ambientazione agreste, campagnola, o boschiva della storia narrata. Il riscontro bucolico è ovviamente lo sfondo perfetto per una storia come questa. Una storia che descrive le vicende del pastore Aminta, innamorato follemente della ninfa Silvia, la quale inizialmente non ricambia questo interesse e che riuscirà ad abbracciare i sentimenti puri del protagonista soltanto a seguito di un cammino arduo e ad ostacoli.
Tasso vuole raccontarci una storia semplice, a tratti frivola e leggera, ma non per questo priva di significato.
Come ci dice anche Calvino:

Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore.

L’amore è ciò che domina e permea l’opera. Tasso non ha paura di mettere in chiaro la cosa. Cupido è il primo a comparire sulla scena ed esordisce con un lungo e meraviglioso monologo in cui ci confida la sua macchinazione del momento: si è nascosto tra gli uomini, fingendosi pastore e vestendosi di stracci, per sfuggire agli sguardi indiscreti di sua madre Venere, la quale non vede di buon occhio l’interesse del figlio per i comuni mortali. Ma Cupido non crede che fra di essi le sue frecce siano sprecate e forse un po’ per gioco, forse un po’ per dimostrare il suo talento, scende tra gli uomini e si trova ad osservare le vicende amorose di Aminta e Silvia.
La personalità di Tasso appare in due modi sulla scena: prima nelle vesti di Aminta, che rappresenta il puro, a tratti impulsivo, amore giovanile e un’altra volta nelle vesti del suo consigliere Tirsi, più anziano del primo, che attraverso le sue parole saggie assume le caratteristiche dell’amore più maturo e ragionato, ma non per questo meno vero, o debole.
Silvia e la sua nutrice Dafne, che in quest’opera appaiono come due personaggi speculari ad Aminta e Tirsi, sono le personificazioni di Leonora e Lucrezia d’Este, così come altri personaggi sono stati ispirati da persone realmente esistite a Ferrara.
Hippie. La favola pastorale ha decisamente uno spirito hippie e l’ “Aminta” potrebbe anche essere l’apoteosi di questa “hippietudine” in stile corriamo nudi nei campi.
Se Tasso fosse vissuto negli anni ’70 del novecento sono convinta che qualche fumatina di Maria Giovanna davanti ai cartoni animati se la sarebbe fatta e la prova, ne sono sicura, è il finale di questa commedia. Un finale in cui, non sto scherzando, Aminta tenta di suicidarsi buttandosi da un dirupo, ma sopravvive perché atterra su un cespuglio.
Le assurdità non sono importanti e non c’è da criticarle, anche se ci si rimane un po’ di stucco. Sembrano quasi volute, come se la storia non avesse bisogno di realismo, né di verosimiglianza. Bensì, rientrando nell’atmosfera della favola e di una gioia corale che invita all’abbandono, si trova coerente qualsiasi slancio emotivo, anche quello che porta a buttarsi da un’altura e soprattutto a sopravvivere alla caduta grazie a madre natura.
Tasso invita all’amore, in tutte le sue trasparenze e chiarezze. All’amore totale, disinibito e quasi ingenuo, abbastanza forte da superare le convenzioni ed il rigore di una morale insensata.
Inutile dirvi che ho trovato questo naturale trionfo amoroso come un poema di cui apprezzarne ogni verso.
La trovo una lettura leggera e assolutamente godibile, seppur scritta in versi che ai più suonerebbero aulici. Non fatevi ingannare da questa forma poetica, perché l’ “Aminta” è un’opera da leggersi in un pomeriggio e girerete l’ultima pagina a cuore leggero.
Persino Leopardi ne rimase colpito e da li prese il nome per la sua “A Silvia”.
Se anche Giacomino approva, non vedo di quale altra spinta abbiate bisogno voi per leggere Tasso. Ho concluso, vostro onore.
Se deciderete di seguire il mio consiglio, fatemi sapere cosa ne pensate e se siete d’accordo con me.
Nel frattempo vi auguro buone letture e buon fine settimana.
Alla prossima!
-Liù

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