mercoledì 12 dicembre 2018

Cara Emmeline - La sposa bambina




Cara Emmeline,
siamo nel 2018, ma come tu ben sai la condizione delle donne, soprattutto in certi luoghi, è ben lontana dall’essere rosea. Il libro di oggi infatti viaggia fino allo Yemen, uno stato in cui le donne sono ancora schiacciate da una cultura estremamente patriarcale.
Certo, non che qui da noi sia stata completamente debellata, anche noi abbiamo tutt’oggi i nostri problemi, ma la situazione in cui sono costrette a vivere le donne là potrebbe farci veramente rabbrividire. Lo Yemen si trova in Asia, sotto l’Arabia Saudita, ed è una di quelle nazioni con una visibile discrepanza tra la campagna o la periferia e le grandi città, come ad esempio la capitale, Sana’a.
Il titolo di oggi è “La sposa bambina”, il racconto di come Nojoud Ali si è ritrovata sposata a 10 anni, ed ha trovato il coraggio di fuggire fino in tribunale per chiedere il divorzio. La prima edizione risale al 2009, e il divorzio, fortunatamente riuscito, è avvenuto nel 2008, quando la bambina aveva appunto 10 anni. Questo libro è dunque stato scritto da una giornalista che ha affiancato Nojoud e ha ascoltato i suoi racconti. La bambina non era mai andata a scuola, o meglio, non era ancora alfabetizzata, in quanto il suo percorso scolastico era stato interrotto precocemente anche a causa del matrimonio.
La storia in sé è quella che tutti noi abbiamo sentito almeno una volta quando si è parlato in televisione, sui giornali o altrove delle “spose bambine”, dei matrimoni combinati, che in alcuni Paesi sono la normalità. Il racconto è narrato in prima persona, con tempo presente, così come viene vissuto dalla protagonista e i vari capitoli saltano tra la storia di come si è giunti al matrimonio e come questa unione è stata vissuta e il tribunale e l’andamento del divorzio.
Lo stile in sé è estremamente semplice perché, secondo me, da un lato richiama l’età di Nojoud e dall’altro perché è un libro divulgativo, che tratta tematiche sociali e deve dunque essere fruibile dalla maggior parte delle persone. Ricalca in modo più semplice il racconto giornalistico, la cronaca con qualche inserimento emotivo legato alla protagonista e a come ella ha vissuto la situazione, o la disgrazia, a seconda di come volete chiamarla.
Ora veniamo però ai tre aspetti chiave di questo libro, quelli che mi hanno portato ad una profonda riflessione sulla cultura e su  me stessa.
Primo tra tutti la differenza tra la mia cultura e quella della protagonista: mi ha stupito molto come, nella parte iniziale, comunque nei primi capitoli, lei descriva la sua storia e la sua cultura come positiva, come buona, in modo anche fiero ed orgoglioso. Eppure si è ritrovata sposata e divorziata a 10 anni, dopo aver subito dal marito violenze sessuali, fisiche e psicologiche. Come mai narra la sua cultura e le sue tradizioni in modo fiero? Non tutte, il matrimonio viene comunque considerato negativamente, ma in generale parla della cultura patriarcale come qualcosa di corretto, esagerato nel suo caso ma condivisibile. Una delle mie prime riflessioni riguarda non la sua cultura, ma la mia: noi occidentali (e coinvolgo l’occidente in generale, non vogliatemene) abbiamo la tendenza ad erigerci a difensori dei diritti e a giudici di pace, arrogandoci il diritto di sentenziare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato basandoci sui nostri canoni. Ma i nostri canoni derivano dalla nostra cultura. Evidenziato questo punto, una protagonista come Nojoud ai nostri occhi si manifesta come la vittima della sua cultura, e il fatto che ella ne parli in modo anche positivo, ci fa drizzare i capelli in testa. Questo semplicemente perché nella nostra mente lei rappresenta lo stereotipo della vittima che sogna lo stupendo e altamente civilizzato occidente e la sua cultura avanzata e paritaria. Non so se serve specificarlo ma lasciate che vi dica che è tutto frutto delle nostre distorsioni cognitive.
Un secondo elemento importante, che viene riportato e che ho apprezzato è il coraggio. Ci vuole tanto coraggio per cambiare la propria vita in generale. Pensate anche solo al tempo che impieghiamo per scegliere di uscire dalla nostra routine e provare a fare qualcosa di nuovo, che richiede più impegno, più concentrazione, più tempo. Siamo nati e siamo fatti per scegliere tendenzialmente la via più semplice, infatti tendiamo ad utilizzare le cosiddette euristiche, le “scorciatoie mentali” che ci permettono di arrivare ad una soluzione rapida ma spesso scarsamente efficace. Provate ora ad immaginare a quanto coraggio serve per ribellarsi, andare contro tutto e tutti, anche contro noi stessi, per cambiare una situazione. Per quanto dolorosa possa essere, cambiare comporta un grandissimo sacrificio, un completo sconvolgimento della propria vita, anche quella interiore. L’aver tradito la propria cultura, la propria famiglia, le proprie tradizioni possono portare le vittime a non ribellarsi, a non reagire, ad accettare passivamente ciò che accade.
L’ultimo punto chiave è la semplicità della scrittura e dello stile. Abbiamo già dato due motivazioni, ma ce ne è una terza: Nojoud descrive la sua storia in modo semplice e lineare, con lo stile di una bambina che ha dovuto vivere questi eventi e che sono diventati per lei la normalità. Ciò che è normale è soggettivo perché la parola normale in realtà non significa nulla se la si estrapola dal contesto in cui è inserita. “È normale andare a scuola” è una frase che ha senso solo da noi, perché ad esempio in diversi paesi l’istruzione non è un diritto e non è di facile accesso. Anzi, in alcuni luoghi l’istruzione è un privilegio. E questo stile è funzionale a far trapelare questo messaggio.
È sicuramente un libro non facile da leggere, pesante che fa riflettere e spesso fa sentire inadeguati o frustrati, come se non stessimo facendo abbastanza per cambiare questo mondo. E chi sa la risposta a questa domanda? L’ideale sarebbe fare sempre del proprio meglio.
-Pearl

Nessun commento:

Posta un commento