lunedì 3 dicembre 2018

Zitti tutti, parla Zucca - Il suicidio




Buongiorno.
Il solito “miao a tutti” mi sembrava troppo amichevole e friendly per l’argomento di cui vi voglio parlare quest’oggi. Sono solo un gatto, ma nella mia esperienza ho potuto osservare voi esseri umani dall’esterno e ho potuto così vedere le vostre gioie ed i vostri dolori.
Ne sto vedendo e percependo uno proprio in questi tristi e nuvolosi giorni e per questo ho interpellato una persona particolarmente importante per questa tematica: Edwin S. Shneidman.
Egli è uno dei fondatori, se non il fondatore della suicidologia, la scienza che studia il suicidio e la sua prevenzione. Nato nel 1918 e morto nel 2009, resta lo psicologo di riferimento per questo campo accademico.
Secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) il suicidio viene definito come un “atto dall’esito fatale che viene deliberatamente intrapreso e portato a termine da una persona nella piena consapevolezza delle conseguenze definitive di un simile gesto”.
Nella letteratura scientifica il suicidio viene spesso associato a dei disturbi psicologici come la depressione, il disturbo bipolare o il disturbo borderline di personalità, perché questi sono disturbi che pongono le basi per i fattori di rischio che possono spingere le persone a commettere questa azione definitiva. Le emozioni provate che possono spingere la persona verso questo atto sono legate al dolore psicologico, che Shneidman definisce psychache. Più precisamente si parla  di rabbia, solitudine, vergogna, senso di colpa, angoscia, ferite narcisistiche e senso di vuoto, di perdita, tristezza. Tutto questo sperimentato ad un livello tale da portare alla disperazione. Questo stato emotivo spinge la persona a ricercare una soluzione immediata, portandola a delle azioni impulsive anche in assenza di uno stato depressivo.
Maurizio Pompili è il suicidologo più famoso in Italia e sottolinea come il suicidio risulti da un dialogo che la persona fa tra sé e sé. Davanti ad un problema la persona disperata ed estremamente sofferente ricerca una soluzione ed emerge così la prima ideazione suicidaria. La mente però la scarta e ne cerca altre, ma quella possibilità torna, e viene scartata di nuovo. Così via fino a che, fallite tutte le altre opzioni, la mente finisce con l’accettare quella che risulta l’unica soluzione possibile.
Ciò avviene perché la dimensione della suicidalità è caratterizzata da un immenso dolore mentale insopportabile, ed è accompagnata da una visione distorta della realtà che porta la persona suicida a sviluppare un pensiero dicotomico: qualcosa risolverà magicamente il mio dolore (opzione impossibile) oppure commettere un suicidio (opzione possibile). Di fronte a questo pensiero risulta evidente che la persona metterà in atto quella che ritiene essere la sua unica possibilità per smettere di soffrire.
Ma cosa causa questa sofferenza negli esseri umani? Generalmente essa nasce dalla mancata soddisfazione, ovvero dalla frustrazione, di bisogni psicologici personali, soprattutto di quei bisogni considerati dalla persona stessa fondamentali per la propria esistenza. Quando questi bisogni vengono frustrati, l’individuo giunge a mettere in discussione la sua intera vita pur di alleviare il dolore che prova. Pompili definisce il suicidio non come un desiderio di morte o come un movimento verso la morte, ma un movimento di allontanamento da ciò che resta sempre uguale: emozioni, dolori e angosce intollerabili e inaccettabili. L’obiettivo del suicida non è dunque porre fine alla propria vita, ma porre fine al proprio dolore.
Chiedo a chi di voi ha avuto a che fare con il suicidio, perché ha conosciuto qualcuno che lo ha commesso o che conosce anche solo parenti/amici di chi lo ha commesso, di ripensare a quel momento e a quella persona, sia essa la vittima diretta o indiretta dell’azione. Ora vi chiedo di focalizzarvi sulla vostra emozione quando avete ricevuto la notizia e di tenerla ben presente. Potreste aver incontrato gente che vi ha contestato quella emozione, perché magari, non conoscendo direttamente la persona suicida, la vostra tristezza è sembrata finta o esagerata ai loro occhi. Voi sapete però di averla provata, l’avete sentita ed era reale. Nessuno può giudicare quella emozione. Allo stesso identico modo nessuno può giudicare le emozioni e gli stati d’animo provati dal suicida, che a causa di essi sceglie di porre fine alla propria esistenza.
Ora pensate a tutti i giudizi che ogni volta che viene commesso un suicidio, si riversano con una assoluta mancanza di tatto e di rispetto sulla vittima stessa e sui suoi familiari, sugli amici, sui colleghi di lavoro che “non si sono accorti di nulla”. Come è possibile, si chiede la gente. La realtà è che è possibilissimo, e che addossare la colpa a qualcuno, a chiunque, è meno doloroso e meno disorientante e sconcertante di sapere che potrebbe succedere a chiunque, anche a loro e ai loro cari, e anche loro potrebbero non accorgersi di nulla. Spesso ho sentito dire frasi come “Certo, era una situazione triste, ma addirittura uccidersi…”. Ecco, penso di avervi spiegato come mai altre soluzioni alternative non vengano prese in considerazione, e spero vi sia altrettanto chiaro che essendo noi tutti al di fuori del contesto e al di fuori della sua mente e del suo dolore non possiamo assolutamente arrogarci il diritto di giudicare le sue decisioni.
Certamente molte persone suicide mostrano o hanno mostrato dei segnali di allarme, brevi affermazioni buttate qua e là nel discorso, oppure azioni come isolarsi dalla famiglia e dagli amici, trascurare l’aspetto fisico, ma anche inspiegabilmente mostrare un improvviso miglioramento dopo aver passato un periodo di depressione. Quando la persona si trova nel bel mezzo della crisi non riesce a stoppare il dolore, non riesce a pensare lucidamente, non riesce a prendere decisioni o a trovare un modo per uscirne, non riesce a vedere possibilità di cambiamento e pensa di non poter essere aiutato. Queste ultime due caratteristiche in particolare sono molto frequenti e possono essere decisive nella presa di decisione di mettere in atto un suicidio. Si parla di Hopelessness, la mancanza di una speranza, l’impossibilità di vedere una luce in fondo al tunnel, la convinzione che nulla cambierà e che il proprio futuro è desinato a restare così come è nel presente: disperato. L’altro elemento è l’Helplessness, la sensazione dell’impossibilità di essere aiutato, “Nessuno può aiutarmi, nessuno può salvarmi”, il suo dolore sarà così per sempre nella sua mente. Parlare con qualcuno è fuori discussione, perché oltre alla convinzione che gli altri non possano capire e fare nulla per lui, rischierebbe di fare soffrire chi vorrebbe stargli accanto, generalmente familiari e amici, a cui la persona tiene molto. Dunque l’unica possibilità è interrompere la propria coscienza in modo definitivo togliendosi la vita.
Come già detto l’obiettivo non è realmente quello di togliersi la vita ma è solo il desiderio di smettere di soffrire, di interrompere il dolore psicologico che accompagna la persona e che è divenuto ormai insopportabile. Ciò significa che se si riuscisse a ridurre il dolore e a renderlo più accettabile, la persona sceglierebbe di continuare a vivere.
C’è uno stigma che accompagna il tema del suicidio, ed è quello che spinge le persone ad addossare la colpa a chi non si è accorto di nulla, ma la realtà è che questo stigma impedisce la prevenzione di queste azioni: parlare del suicidio non spinge qualcuno a suicidarsi, anzi, parlarne e chiedere informazioni è la migliore azione preventiva che possa essere fatta. Certo bisogna parlarne con una modalità adeguata, perché ad esempio lo stile sensazionalista dei mass media non aiuta. Bisognerebbe spingere le persone a chiedere aiuto e non spingerle a credere che chiedere aiuto sia inutile o sia una debolezza.
Non è possibile passare sopra ad una tematica come il suicidio come se nulla fosse, trovando soluzioni semplicistiche per alleviare la propria coscienza e per chiudere a chiave le proprie paure. È arrivato il momento di smettere di dare la colpa ai familiari, di considerarle come vittime meno importanti di altre perché “Lo hanno voluto loro”, “Sono loro che non si sono accorti di nulla”.
Il dolore che provano è reale tanto quanto quello di chiunque altro perda qualcuno, in qualsiasi modo questa perdita avvenga. Non esistono vittime di categoria B.
Vi auguro di non provare mai una esperienza come questa, e vi chiedo di impegnarvi a non trattare questo argomento come un tabù, perché ha in realtà bisogno di essere affrontato e di essere compreso.
E a te che hai scelto di lasciare il mondo in questo modo, auguro che il dolore che volevi tanto eliminare dalla tua vita sia scomparso.
Zucca🐾

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