venerdì 8 giugno 2018

Letteratura italiana - Capitolo 6



Buon giorno, miei cari.
Ho finito “Il barone rampante”, il secondo libro della trilogia di Italo Calvino denominata “I nostri antenati” e non vedo l’ora di parlarvene!
Probabilmente alla maggior parte di voi, popolo italiano che si è visto avvicinarsi questo libro molto prima dei ventotto anni, suonerà strana ed esagerata la mia euforia, ma io sono davvero elettrizzata da questa lettura.


Scritto nel 1957, “Il barone rampante” è da ormai molto tempo consacrato come un grande classico della letteratura italiana, oltre ad essere la dimostrazione che la stessa è capace di raggiungere un livello di bellezza ed espressione creativa fra i più alti nel mondo. Questo, certo, strizzando più di un occhio ai cugini d’oltralpe. “Il barone rampante” infatti, oltre ad essere tantissime altre cose, è anche una celebrazione del pensiero razionale illuminista nel senso più positivo del termine, il quale nel settecento ha trovato nascita e massima espressione in Francia. Così, giusto per rifarci al titolo della trilogia “I nostri antenati” e per cercare di fornire una mappatura intellettuale di ideali e filosofie dalla quale noi contemporanei proveniamo culturalmente. Per farlo, Calvino ci offre la storia di Cosimo Piovasco di Rondò, barone di Ombrosa, un paesino inventato della riviera ligure.
Il racconto si apre su un pranzo di famiglia a dir poco bizzarro dove Biagio, voce narrante della storia, osserva suo fratello Cosimo prendere una ferma posizione apertamente contro il volere del padre, rifiutando di mangiare le lumache cucinate dall’odiosa sorella. Ne conseguirà la singolare decisione che condizionerà per sempre la sua esistenza.
La tavola come punto iniziale dal quale partire si rivela un ottimo strumento per parlare di quanto il mangiare insieme e la condivisione dovrebbero essere i capisaldi del vivere bene la famiglia e del come, al contrario, si riveli essere il momento delle incompatibilità, delle ipocrisie e delle storture nei rapporti tra i membri familiari, simbolo anche di ciò che non funziona all’interno della società. Non so per quanto riguarda gli altri, ma questo concetto è tipico della nostra cultura. Molto, molto, molto italiano.
A seguito di questo episodio, Cosimo deciderà di arrampicarsi su di un albero e di non mettere mai più piede a terra. Inizia così la storia di come il barone Cosimo si ritrovò a vivere la sua esistenza tra gli alberi di Ombrosa; protagonista e spettatore allo stesso tempo degli avvenimenti più significativi del territorio, mente illuminata e colta, capace di guidare altri uomini come un vero leader e di isolarsi dal resto del mondo come il miglior outcast è capace di fare.
Questa storia sembra voler dar credito all’idea secondo la quale cambiare punto di vista, o osservare gli avvenimenti da una posizione distanziata e in qualche modo privilegiata, possa fare un’enorme differenza. Soprattutto se tale posizione si colloca in una sfera mentale “superiore”, che in questo caso coincide con quella fisicamente superiore dei rami e del mondo arboreo di cui Cosimo fa il suo regno.
Cosimo è un personaggio al di sopra della massa che, scusate se mi ripeto, Calvino ha voluto collocare fisicamente al di sopra, dandogli rami e fronde a disposizione. Possiamo quindi dire che l’opera è permeata di simboli più o meno evidenti e che tutto è finalizzato alla costruzione di un personaggio straordinario, cioè al di fuori dell’ordinario, che si eleva; un personaggio il cui agire è determinato da motivazioni che vanno a guardare il benessere comune e ciò che è meglio per tutti, in una visione utopica e spesso incompresa dai più di come dovrebbe essere una società equa. In questo, chiaro è anche il rifacimento allo stato di natura nobilitato da Rousseau, il quale auspica un ritorno ad una condizione pre-apparati governativi, più sana e libera.
Significativo il fatto che a causa di un delinquente, di uno degli anelli più bassi nella piramide sociale, Cosimo inizia a leggere di più e si accultura più di quanto abbia mai fatto in precedenza.
Vedere le cose da altri punti di vista, mettere a fuoco, usare il pensiero razionale come bilancia perfetta nel giudizio e più semplicemente l’illuminismo. Tutto ciò è “Il barone rampante” e tutto ciò non è tutto. Perché chi si pone da una così grande distanza rispetto agli altri, mentale e fisica, deve essere anche pronto alla solitudine, come dimostra la storia d’amore appassionata  tra Cosimo e Violante. Un amore sincero e forte, forse fra i migliori raccontati nella nostra letteratura e che tuttavia non è stato sufficiente per un lieto fine.
Cosimo e Viola hanno entrambi caratteri forti e determinati, che nel gioco amoroso cozzano e si urtano l’un l’altro, creando passioni rabbiose e vibranti. Una visione rosea di questo amore era impossibile, così come l’idea che il protagonista potesse continuare la sua vita con la stretta vicinanza di qualcun altro. No, per sua stessa natura Cosimo è destinato a stare da solo, ad una certa ragionevole distanza dal resto del mondo, anche se questo non significa che non abbia mai amato.
Nell’edizione in mio possesso, Oscar moderni, che potete vedere anche a inizio recensione, Cesare Cases offre una riflessione illuminante sul concetto di “pathos della distanza”, anche come causa di infelicità in quanto incapacità di adattarsi alla realtà immediata e di come Calvino fosse fortemente legato a questo tema, riproponendolo in molte delle sue opere più famose. Ne “Il visconte dimezzato”, questo concetto si traduce nella “mancanza”. Anche ne “Il barone rampante” si sente questa tensione tra la solitudine nella distanza e la comunità necessaria, ma disgustosamente vicina e infida.
Questi grandi temi, coi quali la nostra contemporaneità nutre le proprie radici e che proprio per questo li sente così attuali, non potevano che trovare espressione migliore nella cifra stilistica di Calvino, il quale offre leggerezza e divertimento, ma mai frivolezza, o vuotezza. La sua penna è intelligente, leggera ed è anche capace di osare; una piuma fascinosa e bella, che solletica e diverte, ma che si rivela tutt’altro che stupida.
Con questo secondo volume sono a due terzi della trilogia e  avendo trovato massima fiducia in questo autore, sono curiosa di prendere in mano “Il cavaliere inesistente” per scoprire cosa Calvino, con ironia, fantasia e arguzia, abbia avuto ancora il coraggio di dirci.
Intanto, vi aspetto alla prossima recensione e vi auguro buon weekend.
Alla prossima, lettori!

-Liù

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