mercoledì 27 giugno 2018

Mai giudicare un libro dal suo film... e viceversa - Pastorale americana



ATTENZIONE!
Avvisiamo i nostri gentili lettori che questa rubrica conterrà spoiler sia sui libri che sui film che verranno trattati. Inoltre ci teniamo a sottolineare che non è una battaglia in cui uno dei due mezzi comunicativi vince sull’altro, ma è un confronto degli aspetti positivi e negativi di ciascuno per cercare di capire se l’adattamento cinematografico ha trasmesso l’idea originaria dell’autore o se invece se ne è discostato per raccontare qualcosa d’altro. Non parliamo di meglio o peggio ma di un confronto alla pari tra due canali comunicativi differenti.

Salve salvino, miei cari lettori!
Quando si parla di “Pastorale americana” si parla sempre di pugni intellettuali allo stomaco ben assestati. Ed è esattamente ciò di cui andremo a parlare oggi, per la nostra rubrica “Libri e film”.
Ecco a voi un confronto personale tra “Pastorale americana” libro e “Pastorale americana” film, nel quale mi sono imbattuta proprio qualche giorno fa. Non vi dico il panico di ricascare nella versione cinematografica di una storia che mi aveva letteralmente tolto il fiato, ma andiamo con ordine e vediamo di ricordare ogni punto.



IL LIBRO
Io e gli amanti di Philip Roth – che se sono veramente suoi amanti non possono esimersi dal conoscere il premio Pulitzer capolavoro della sua letteratura – sappiamo già tutto quello che c’è da sapere sulla storia di Seymour Levov, alias lo Svedese, del suo futuro promettente tragicamente precipitato a causa della figlia reazionaria e politicizzata e dello scenario perbenista tipico americano che, oltre ad essere fortemente criticato, permea questo romanzo.
La scrittura è ricca e fluida, lo stile è un’analisi psicologica continua e i temi sono affrontati in modo tutt’altro che banale, tanto che credi di partire con opinioni ben chiare e solide su certe questioni, per poi ritrovarti dalla parte opposta, in preda a raptus di prese di posizione anomale.
Il contesto storico-sociale di questo romanzo è importante, perché da un’idea perfettamente chiara delle motivazioni che muovono i personaggi. Lo svedese è figlio del suo tempo e sua figlia lo è del suo. Due tempi storici molto diversi, anche se verificatisi uno dopo l’altro e che hanno contribuito alla trasformazione della società americana in modo radicale. Seymour non capisce la figlia, pur sforzandosi quotidianamente e Merry crede di capire il padre, condannandolo, giudicandolo, disprezzandolo per rappresentare così brillantemente una classe sociale ipocrita che deve la sua ricchezza al resto del mondo; un terzo mondo che non ha nulla da guadagnarci. Merry sa che per quanto suo padre possa amarla, non potrà mai avvicinarsi a lei più di tanto.
Le lotte sociali particolarmente feroci, imprudenti, impertinenti e a tratti necessarie degli Stati Uniti degli anni settanta, non hanno permesso al signor Levov di salvare la sua famiglia e la sua unica figlia e ci si ritrova alla fine della sua storia con un amaro in bocca difficile da risciacquare.
Per ora non ho letto altro di Roth, nonostante a quanto ne so sia stato uno scrittore abbastanza prolifico, ma se è sempre così vale la pena di leggerli tutti. Non per niente è in lizza per l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura 2018, che come ben sappiamo, è stato rimandato all’anno prossimo.
Purtroppo, anche nel caso in cui venisse vinto, Roth non farà più in tempo a saperlo, ma premio o non premio che sia, a noi resta sicuramente un lascito letterario importante, che in questo caso ha sfiorato l’eccellenza e che ha convinto  Ewan McGregor a tradurre questa storia in un film di tutto rispetto.

IL FILM
Ammettiamolo: non era facile. Non era per niente facile. Neanche se dietro (e contemporaneamente davanti) alla macchina da presa troviamo un mostro sacro come Obi-Wan Kenobi, che… Voglio dire… È  il dannato Obi-Wan Kenobi!
Ewan McGregor ha un particolare talento, oltre a quello recitativo, che gli permette di saper scegliere i propri ruoli e i propri soggetti con grandissima intelligenza. In tutta la sua carriera siamo passati per capolavori filmici del calibro di “Trainspotting”, “Big fish” e “Moulin Rouge” e attraverso piccoli tesori nascosti come “Grazie, signora Thatcher”, che vi consiglio caldamente.
Ora il signor McGregor, abile occhio nell’individuare il plot giusto, incontra Roth e decide di fare suo lo Svedese. Poco importa la provenienza tutt’altro che americana del regista, poco importa la poca esperienza dietro la macchina da presa e poco importa se si deve parlare di temi di nicchia, su un film che pochi vedranno, su un film che forse non era destinato allo schermo. McGregor ci prova e ci regala una pellicola dignitosa, godibilissima e fedele a quella che credo sia l’essenza del romanzo.
Il periodo storico è infatti sbandierato per tutto il film, ma è una dichiarazione realistica, tutt’altro che mainstream.
I colori non sono accesi, ma veri. Non è l’America che brilla sempre e costantemente, quella sotto i riflettori che probabilmente hanno catturato anche Miss New Jersey, la moglie del protagonista. È semplicemente l’America; quella reale del periodo raccontato, forse con meno patina di quella a cui siamo abituati e di cui piace spesso raccontare, ma sicuramente più sincera, pronta a sollevare il velo e a scoprire tutti i controsensi e le storture di una società che con i suoi scheletri nell’armadio e le sue buone intenzioni ci può lastricare l’intero Mississippi.
Credo che in quanto a stile narrativo, il film ci azzecchi parecchio col senso della storia raccontata, con la sua crudezza e la sua terribile, insopportabile verità.
Non ho apprezzato particolarmente il finale, lo ammetto, perché non era per nulla il finale che mi aspettavo. Più volte, leggendo il libro, ho desiderato un finale simile e non è mai arrivato. Su questo, non v’è dubbio alcuno, il mio naso si è arricciato come le peggiori snob dell’alta società americana anni cinquanta, per restare un po’ in tema. Lo volevo, ma è sempre stato chiaro fin da subito che non era una storia fatta per un finale simile, neanche lontanamente simile, indi per cui lo volevo e allo stesso tempo non lo volevo. Volevo che Roth mi lasciasse li, a morire (idealmente parlando) in questo dubbio amletico difficile da sbrogliare. Per cui il mio voto nei confronti della scena finale non è stato dato, con grande dispiacere, ma è così. Riassumendo il tutto: il film, per me, ha i suoi pro e contro, ma sono stata contenta di averlo visto e se devo dirvi la verità, pendo più per l’approvazione, che per lo sdegno.

IL CONFRONTO
Sarò sincera, non credo che “Pastorale americana” sarà mai una storia adatta ad una forma d’arte che non sia quella letteraria. È uno di quei rari capolavori pensati così bene, calibrati in modo così pignolo e partoriti così specificatamente per una forma comunicativa, che dubito si possa davvero rendere l’idea in un altro modo, o in un’altra versione della stessa storia.
“Pastorale americana” è una storia che va letta, c’è poco da fare e di certo non si può saltare la pazienza che ci vuole nella lettura in favore del film. Quest’ultimo, casomai, lo vedrei meglio come una sorta di supporto ulteriore al romanzo, un qualcosa in più, un regalo per i lettori che hanno amato “Pastorale americana” e che in questi termini sicuramente applaudiranno a McGregor, a Jennifer Connelly e di certo a Dakota Fanning, bravissima nel suo difficile ruolo.
Insomma, se proprio volete un mio consiglio spassionato, direi che il libro va letto a prescindere e che successivamente potete anche vedere il film, ma non guardate mai l’ultimo senza aver letto il primo, o non apprezzerete ciò che state vedendo, il che vi posso assicurare che è un gran peccato, perché merita.

Lo so, il confronto è stato breve, ma vi posso assicurare che è davvero denso di significato; esattamente ciò che avevo intenzione di dire.
Detto ciò io vi lascio alle vostre letture, alle vostre visioni e alla vostra settimana.
Grazie per essere arrivati fin qui e buon mercoledì, lettori! Alla prossima!
-Liù

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