mercoledì 13 marzo 2019

Cara Emmeline - Il racconto dell'ancella


Cara Emmeline,
siamo nuovamente giunti al nostro appuntamento mensile con il femminismo, che ci permette di approfondire alcuni tra gli argomenti a noi più cari: donne, società, questioni di genere e ovviamente libri.
Ognuno di noi ha delle storie da raccontare e sempre più spesso, quelle storie, raccontano di  uguaglianza e disuguaglianza tra i generi. Noi ne siamo interessate e bisogna ammettere che spesso e volentieri ce le andiamo letteralmente a cercare.
Orgogliosamente fiera del nostro operato e fermamente decisa a perseverare, sono molto contenta di potervi finalmente parlare di questo romanzo; della storia che già da un po’ si trova sulla bocca di tutti, oggi come in passato.

Recentemente se ne è fatto un gran parlare, almeno da quando è stato deciso di tornare al 1985, recuperare la storia di Margaret Atwood e farne una serie tv.
No, neanche stavolta questo blog incontrerà i favori del Family day. Sarà dura accettarlo e non ci dormiremo la notte… Ma alla fine ce ne faremo una ragione.
Mi raccomando, parlate di “narrativa speculativa” e non di “distopia”. Questo l’ammonimento dell’autrice per il suo romanzo “Il racconto dell’ancella”.
Come lo si vuol chiamare lo si chiami, io dirò solo che questo libro ha steso un velo rosso sangue nella coscienza comune ed il suddetto velo si è rivelato andare più lontano di un rotolone Regina. Ma la Atwood non ha di certo avuto intenzione di coprire, né tantomeno di proteggere, la logica maschilistica del nostro vivere comune, adoperata in ogni piccolo quotidiano della nostra società e in modo così leggero da essere considerata senza importanza, da passare inosservata e sopravvivere alla lotta per la parità.
L’uso comune di parole o frasi, i numerosi “infondo se l’è andata a cercare”, paradossalmente conviventi con i più intellettuali “frigida” e “Donne con la D maiuscola”, ecco: stiamo parlando di quelle sottigliezze li, che ognuno di noi ha sentito almeno una volta nella vita. Ebbene, io credo che con questo romanzo, la Atwood tenti di mettere sotto i riflettori tutti questi piccoli luoghi comuni che ci sembrano innocui e sottolinearne la pericolosità, mostrando come possano degenerare, come possano essere ingigantiti e alla fine costituire una società che li venera e li consacra a legge. È, per l’appunto, la società della nostra ancella quella di cui parliamo. Una mentalità che si è insinuata silenziosamente, piano piano, che ha proceduto per gradi e che alla fine ha ribaltato la democrazia senza che i più se ne rendessero conto in tempo.
L’ovvia voce narrante preannunciata nel titolo, l’ancella Difred, ci racconta dello stato dittatoriale in cui vive, dove nessuna categoria di donna si trova in una posizione autonoma, indipendente, o libera. Forse le Zie, vecchie e sterili, sono le uniche che possiamo considerare come detentrici di una qualche sorta di potere, ma la loro funzione all’interno della Repubblica di Galaad è una missione; una missione intrapresa con lo spirito del vero credente, non con la praticità dell’uomo d’affari che ci vuole guadagnare, anche se poi una posizione di privilegio, le zie la ottengono eccome.
Le Marte, cioè le domestiche che nient’altro sono se non delle serve e a niente di diverso da quello possono sperare di ambire; le Mogli, come spettatrici d’onore in tranquilla attesa che i loro mariti concludano il loro mensile rapporto carnale con un’altra donna e le Ancelle, uniche donne fertili nell’universo della Atwood, costrette a compiere quel rapporto carnale contro la loro volontà. Questi sono gli unici destini possibili per le donne di Galaad, alle quali non è concesso leggere, né scegliere come vestirsi. Se è per questo non è concesso loro alcunché, ma nonostante questo non tutte sono scontente della loro posizione e alcune di loro vivono felici la loro esistenza indottrinata. Non che quelle scontente facciano qualcosa di diverso, visto che non hanno nessuna via d’uscita, o ancor peggio, hanno perso la speranza di trovarla e quindi non si adoperano per cercare di salvarsi.
Inquietante pensare che la scrittrice non ha costruito questa storia partendo dalle sue fantasie, ma raccontando fatti e comportamenti umani già avvenuti nella storia umana, in altre epoche storiche.
Le figure femminili, pur nella loro sottomissione che talvolta sfocia in vera e propria apatia, sono costruite divinamente, con intelligenza e ricchezza di dettagli, così da permettere sfumature sorprendenti.
Non è facile vedere della sorellanza tra questi personaggi, a causa dei loro diversi ruoli sociali, ma nella maggior parte dei casi hanno tutte qualcosa di energico, qualcosa che in un contesto realistico e non distopico avrebbe potuto accomunarle e addirittura renderle amiche; un’energia soffocata se vogliamo, ma pur sempre energia e se ne percepisce il fantasma. È così persino per la Moglie del Comandante cui appartiene Difred, una pioniera della rivoluzione di Galaad, un personaggio molto negativo, ma estremamente curioso per il lettore. Se vi chiedete come si possa odiare ed amare una persona al tempo stesso sappiate che Serena Joy, con suo marito, ci riesce perfettamente. È una donna frustrata, arrabbiata e intollerante e per la maggior parte del tempo lo è con sé stessa, con ciò che la sua rivoluzione e i suoi sforzi, insieme a quelli dei figli della rivoluzione, i figli di Giacobbe, hanno permesso che succedesse. Serena è una donna combattuta tra ciò in cui credeva, che non vuole abbandonare, e le conseguenze che le si sono ritorte contro e che le dimostrano ogni giorno di aver fatto le scelte sbagliate. Odia Difred perché odia sé stessa; la odia perché non può essere lei, perché a differenza della moglie è l’ancella fertile che deve avere rapporti sessuali con il marito, perché si è costruita con le sue sole mani una gabbia in cui può godere del rispetto degli altri, ma del medesimo non sa che farsene. La capisco Serena. Pur non salvandola, la capisco. Certo, è poi più facile capire altre figure, come Moira che non si arrende mai, Rita che ha imparato a farsi i fatti suoi e ha capito che la cosa coincide con la sua sopravvivenza, Janine che si racconta la sua bugia quotidiana per sopravvivere, Diglen che ha il coraggio di compiere un ultimo gesto estremo per una causa superiore, la stessa Difred apparentemente così sottomessa ha la forza di sopportare la sua esistenza da ancella nel tentativo di ricongiungersi alla figlia e finalmente proteggerla. Non credo che Difred sia una protagonista totalmente passiva, come può sembrare a molti. Penso invece che abbia un carattere molto emotivo, che le fa prendere decisioni con il cuore invece che con la testa. Per Difred l’amore è tutto, l’amore per qualcun altro, ma anche l’amore per la vita che non ha più e che pensa di non poter avere più indietro.
I personaggi davvero inqualificabili sono i personaggi maschili, eccetto per Nick, talmente sfuggente che difficilmente potremmo esprimerci su di lui. Del resto me lo aspettavo: è un romanzo che ragiona per estremi e che ha l’intento di condannare un insieme di comportamenti sociali che danneggiano le donne. Ciò che non mi aspettavo è l’estrema lentezza di alcuni scenari. Perfettamente comprensibili se si pensa che devono trasmettere la monotonia e la vuotezza della vita cui è condannata la protagonista, ma che rendono alcune parti della storia decisamente noiose.
Nonostante i difetti credo dobbiamo molto a questo libro, un libro che è stato capace di farsi portare nelle manifestazioni al grido di “Nolite te bastardes carborundorum”, una frase emblematica del romanzo, ma che è anche diventata un simbolo della lotta femminista.
Così, con l’8 marzo di poco lasciato alle spalle e con questo lunghissimo consiglio di lettura femminista, vi saluto e vi auguro buona giornata.
Poi, comunque, guardate anche la serie tv, che merita anche quella.

Buona giornata, lettori femministi!

E ricordate:
Non una di meno.

-Liù

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