mercoledì 14 febbraio 2018

Cara Emmeline - Una stanza tutta per sé




Buongiorno a tutti!
La prima recensione della rubrica “Cara Emmeline”, che vi avevamo promesso ormai un mese fa, è finalmente arrivata ed è dedicata, nientemeno, a “Una stanza tutta per sé”.
Qui è proprio il caso di dirlo: chi la dura la vince! Si, perché per portarlo sul blog ho dovuto
superare mille peripezie, prima fra tutte il fatto che avessi perso il volume della biblioteca nei meandri del mio baule e già mi stavo preparando a pagarne il prezzo oltre che la vergogna eterna, ma per chissà quale grazia divina sono riuscita a  ritrovarlo ed ecco che finalmente Virginia Woolf può aprire le danze! Inutile dirlo, lo fa in grande stile, con un saggio di tutto rispetto. O, qualora la categoria “saggio” non fosse soddisfacente, possiamo classificare questo prodotto esattamente come nella mia mente si era classificato il già recensito “Dovremmo essere tutti femministi”, ossia nella sezione homemade “conferenza trasformata in opera scritta”.
Intorno al 1928, infatti, fu chiesto alla scrittrice di parlare al pubblico – un pubblico che scopriamo essere di sole donne – a proposito dell’argomento “donne e romanzi”. Ciò che ne derivò risultò essere molto lungo, poco confacente a un discorso da fare rivolti ad un pubblico, tanto da doverlo ridurre, per poi pubblicarne una versione integrale su carta.
Non stupisce il fatto che alla fine degli anni venti, l’unico pubblico presente destinato all’ascolto di un discorso riguardante le donne e il romanzo, si sia composto di sole donne, ma è certo una piacevole sorpresa scoprire gli argomenti e i temi della Woolf, le sue ragioni ed opinioni, sicuramente lungimiranti rispetto alla sua epoca.
Ovviamente non si è risparmiata dal dimostrare con cipiglio critico un certo dominio storico dell’uomo sulla donna, in ogni aspetto della loro vita quotidiana insieme. Memorabile, a questo proposito, il paragone fatto tra la donna e uno specchio di cui l’uomo si serve per ingrandire la sua immagine, oltre alla menzione circa la tendenza femminile all’anonimato, dovuta a un certo retaggio culturale che è di lei proprio.
Fin qui parliamo di fatti, signori, non di opinioni, poiché è abbastanza certo, se non addirittura storicamente provato, il ruolo subordinato della donna nel corso dei secoli. Tuttavia, ben presto, ci si accorge di quanto la Woolf sia equa nel suo giudizio.

A ogni modo la colpa di tutto questo, se proprio vogliamo dare la colpa a qualcuno, non è più di un sesso che dell’altro.

Lo trovo un pensiero, per l’epoca in cui è stato pensato e scritto, avanti anni luce. Per me tutto è una novità, visto che è la prima cosa che leggo della Woolf, ma non giudicatemi!
Oltre ai cenni storici, troviamo altri due punti fondamentali sui quali si erge tutto il suo pensiero in proposito: la convinzione che la creatività femminile si differenzia da quella maschile e lo spirito pratico col quale l’autrice affronta le possibilità concrete che possiede la donna per raggiungere l’obbiettivo, altrettanto concreto, di pubblicare un suo libro. 
Al primo punto, lo confesso, mi ci sono particolarmente affezionata, dal momento che alla mia discussione di tesi mi avevano posto lo stesso quesito: l’arte femminile si differenzia dall’arte maschile? Domanda per cui, non avendo saputo rispondere in modo adeguato, mi avevano tolto un punto nel voto finale. Il numero della pagina in cui la Woolf inizia ad argomentare tale discorso, guarda caso, corrispondeva esattamente al mio voto di laurea. Coincidenze? Molto probabilmente si, ma io sono debole e la cosa mi ha colpito. Non è però stata l’unica a farlo, perché a questo discorso la Woolf pone dei limiti ben precisi. A parità di livello qualitativo, infatti, si può raggiungere l’eccellenza letteraria se, secondo l’autrice, ci si “dimentica” del proprio sesso. Con questo intende dire che se la scrittrice donna è capace di andare oltre il proprio rancore sui pregiudizi che si è vista appuntati addosso in quanto donna e lascia l’intelletto e la creatività liberi di fluire (flusso dell’energia creativa) allora sarà capace di produrre grandi opere letterarie.

Shakespeare era androgino.

Così ci sentiamo dire dalla Woolf, perché il suo genio non ha tenuto conto del suo sesso ed è stato libero di spaziare senza ostacoli. Allo stesso modo, sempre secondo la Woolf, deve comportarsi la donna che intende scrivere un libro: andare oltre il rancore e scrivere priva di rabbia.
Quanto al secondo punto, circa la concretezza e praticità, ci rifacciamo facilmente al titolo: per scrivere un buon libro, è importante che la donna disponga di una buona quantità di denaro e di una stanza tutta per sé in cui potersi rifugiare. Tutto questo, detto in soldoni, si potrebbe anche tradurre con la disponibilità di una buona indipendenza economica e intellettuale, che non costringa la donna nel salotto comune, dove l’esercizio dello scrivere verrebbe interrotto innumerevoli volte e che le permetta di mantenersi pur contemplando l’infinito e oltre, permettendole di ascoltare i propri pensieri e darvi peso, così da poterli tradurre in un libro.
Valido è quel libro che riesce ad accendere il cervello di chi lo legge e a farlo spaziare. Ecco un paio di cose su cui ho spaziato. Tanto per cominciare, inizio col riflettere sul fatto che al giorno d’oggi, questa “stanza tutta per sé”, potrebbe anche essere virtuale, proprio come un blog; uno spazio in cui rifugiarsi, creato su misura della persona e soprattutto, mai come in epoca contemporanea, uno spazio a cui è facilissimo accedervi. Ma la cosa su cui, col rischio di diventare ripetitiva, voglio soffermarmi maggiormente è proprio questa differenziazione della creatività. C’è un motivo se alla discussione di tesi non ero riuscita a dare una spiegazione adeguata e successivamente ho cercato di continuo di darvi una risposta; una risposta che la Woolf è stata forse in grado di darmi, sebbene solo in parte.
Sono convinta che bisognerebbe chiedersi prima se l’essere uomo o donna, eccezion fatta per il contesto biologico, sia o no un costrutto sociale. Perché per quanto mi riguarda, l’identità sessuale parte dal proprio inconscio, né più né meno quanto vi partono l’arte e la creatività. Quanto dipenda da fattori innati o da fattori ambientali questo è un discorso tutt’ora aperto e che ha l’aria di restare aperto ancora per molto tempo. Questa, per ora, è la mia risposta.
Ad ogni modo, la cara Virginia, la nostra “Emmeline onoraria” del mese di Febbraio, voleva focalizzare l’attenzione sul fatto che il nostro sesso, qualsiasi esso sia, potrebbe essere un enorme ostacolo alla nostra capacità di immaginare e produrre arte ed è fondamentale che vada usato nel modo giusto, senza troppa impulsività, perché ne va della nostra onestà intellettuale e del nostro talento.
Sono estremamente contenta di aver scelto questo saggio come il primo per questa rubrica, perché nonostante la concretezza scortavi, che non mi stancherò mai di lodare, è un grande monologo filosofico, improntato a gettare le basi teoriche di un pensiero fortemente condiviso, qui in redazione, sugli argomenti quali “femminismo”, “romanzo femminile”, “arte femminile” e soprattutto “parità”.
È stato come se ci avesse indicato la direzione da prendere e per quanto mi riguarda sono entusiasta di percorrerla.
E voi cosa ne pensate? Per voi la creatività ha un sesso? Si differenzia a seconda del sesso dell’artista? E la disponibilità economica fa davvero la grande differenza?
Il dibattito è aperto, io ve l’avevo detto!
Spero che questa partenza col botto vi sia piaciuta almeno tanto quanto a me e che vi precipitiate in biblioteca a prenotare “Una stanza tutta per sé”. Consiglio spassionato: non tenetela nel baule dell’auto.
Alla prossima, lettori!

-Liù

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