venerdì 9 marzo 2018

Letteratura internazionale - Capitolo 20




Buongiorno a tutti!
Oggi un grande classico della letteratura internazionale, nonché uno degli autori più importanti dall’America Latina: Gabriel Garcia Marquez. Autore già trattato dal nostro blog, sia con una delle sue maggiori opere “L’amore ai tempi del colera” sia con “La mala ora”.
Questa volta ci occuperemo dell’altra sua opera più conosciuta, ovvero “Cent’anni di solitudine”, del 1967. Io avevo letto solo “La mala ora” di questo autore, che tra l’altro è il libro precedente in ordine cronologico.

La storia narra della famiglia Buendìa e di ciò che accade ai suoi singoli membri nel corso di 100 anni. Quindi si parte da Josè Arcadio Buendìa e sua moglie Ursula e dai loro due figli maschi, il primo con lo stesso nome del padre e il secondo Aureliano, e dall’unica figlia femmina di nome Amaranta.
È stato un po’ difficoltoso l’inizio in quanto i personaggi sono molti, ma soprattutto nel corso degli anni si ripetono ad oltranza gli stessi due o tre nomi, in particolare José Arcadio e Aureliano. Ad un certo punto, più o meno la terza generazione si mescolano una quantità di Aureliano che diventa difficile ricomporre l’albero genealogico e seguire così la trama. A parte però questa fase centrale in cui si susseguono sempre gli stessi nomi, il libro è scorrevole.
Tra i personaggi che ho apprezzato maggiormente ci sono Aureliano, il secondo figlio che è presente fin dal primo capitolo, e Ursula, l’highlander della storia, perché vivrà fino alla fine del romanzo, alla veneranda età di circa 125 anni. Mi sono un po’ ritrovata nel secondo figlio perché anche io lo sono, ma anche nel carattere del ragazzo, particolarmente razionale, solitario e poco emotivo con gli altri. Si differenzia in particolar modo dal fratello maggiore che invece incarna lo stereotipo machista della società: uomo alfa, sessualmente dotato, muscoloso, forte, alto e bello. Anche se poi risulta essere più che altro un rozzo. Aureliano invece rappresenta un po’ di più l’uomo di intelletto, di scienza, che riflette sulla vita, maggiormente filosofico ma non per questo un uomo escluso dall’azione.  Infatti poi sarà lui il colonnello che guiderà la ribellione dei liberali contro i conservatori e che diventerà famoso.
Lo stile di scrittura è affascinante, e ho apprezzato tantissimo le meravigliose metafore che Marquez è riuscito a creare durante la narrazione. Le metafore sono a mia opinione come dei trabocchetti, perché potrebbe sembrare facile paragonare un avvenimento, un’azione o un oggetto a qualche immagine diversa e creativa, ma riuscire a non scadere nel banale o nelle ripetizioni o nell’assurdo, non è da tutti. Quindi le metafore per me sono fondamentali, uno dei modi migliori per capire se l’autore è effettivamente bravo come potrebbe sembrare. E Marquez è bravo. Decisamente bravo.
Questo anche perché nonostante le lunghe pagine e i momenti di solitudine che vengono descritti per molte pagine non diventa mai noioso. Ad esempio non mi sono mai addormentata leggendo questo libro, perché lo stile di scrittura non è soporifero come per esempio in altri romanzi; mi è infatti capitato di crollare addormentata durante la lettura con altri libri, come per esempio “Io sono un gatto”.
Un aspetto invece particolare di questo romanzo sono gli aspetti fantasy che emergono nella trama come la malattia dell’insonnia, il ritorno dalla morte, l’età longeva fino oltre l’immaginabile. È anche storia dell’assurdo per certi versi.
L’ambientazione è ancora Macondo, il paese inventato dall’autore e fondato dal capostipite della generazione Buendìa.
Il messaggio principale, che si potrebbe intuire dal titolo, è la solitudine, ma non tanto la solitudine fisica quanto invece quella interiore. L’ho trovato una meravigliosa metafora della vita, in cui stare in compagnia non  basta a non sentirsi soli perché a volte la solitudine è più profonda, interiore, prende il sopravvento sulla vita e allora anche in mezzo ad una folla non ci si sentirebbe bene o meno soli. Ognuno reagisce in modo diverso per cercare un rimedio al proprio malessere: c’è chi si dedica alla scienza e chi si dedica alle relazioni sociali, c’è chi si butta a capofitto nel lavoro e nella manovalanza e chi decide di non fare nulla e coltivare la solitudine. Ma anche all’interno della stessa tipologia di reazione si possono trovare delle differenze, come ad esempio avviene tra José Arcadio padre e Aureliano il secondo figlio. E questo si percepisce fin dalle prime pagine del libro, che mi hanno richiamato alla memoria un altro grande autore e musicista italiano: Fabrizio De Andrè. Per tutto il tempo della lettura ho avuto nella mente una colonna sonora di accompagnamento e in particolare la strofa: “Cari fratelli dell’altra sponda, cantammo in coro giù sulla terra, amammo in cento l’identica donna, partimmo in mille per la stessa guerra. Questo ricordo non vi consoli, quando si muore si muore soli” tratta dalla sua canzone “Il testamento”.
Siamo tutti soli, sempre, in un modo o nell’altro, internamente o fisicamente. Ma nonostante questo messaggio che potrebbe sembrare deprimente o triste ritengo che questo sia un libro di grande speranza. Che nonostante le scene a volte al limite della telenovela, che nonostante le situazioni macabre, soprattutto verso la fine, quello che resta dopo aver terminato la lettura è un sorriso amaro, ma pur sempre un sorriso. C’è sempre una nuova speranza, una nuova scoperta, una nuova possibilità di rinascere.
Consiglio questo libro a tutti. L’ambientazione e i personaggi sono tipici dall’America Latina, ma anche se non vi sentite affini allo stile della storia ritengo che sia uno di quei libri che bisogna leggere almeno una volta nella vita.
-Pearl

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