venerdì 12 ottobre 2018

Libri per ragazzi - Capitolo 9



Eccoci finalmente giunti, miei cari lettori, alla fine di questa saga letteraria dedicata ai giovani ragazzi.
Sto parlando proprio di “Berlin”. O per meglio dire, del sesto volume di questa storia intitolato “L’isola degli dei”. Il duo italiano Fabio Geda e Marco Magnone ha firmato anche quest’ultima tappa del viaggio, uscita nelle librerie quest’estate sotto forma di romanzo.
Vi dico già da subito che questa storia poteva finire meglio,
ma poteva anche finire molto peggio, per cui restiamo positivi e promuoviamo comunque questo insolito young adult che sprizza intenti pedagogici da tutti i pori.
Siamo un po’ tutti così: appena riusciamo a capire che il bersaglio a cui dobbiamo puntare è un minore, facciamo uscire la Montessori che è in noi e vogliamo per forza metterci in cattedra. Che questo sia un aspetto fortemente caratterizzante di “Berlin”, l’ho finalmente realizzato all’alba del sesto libro; cioè lo percepivo anche prima, ma è soltanto ora che riesco a tradurlo in parole.
Vedete, ragazzi? Siete in ottime mani con questo blog!
Vi dirò, il sesto capitolo della saga non è nemmeno il più forte da questo punto di vista, anzi! Nell’ultimo libro di “Berlin” mettiamo un po’ da parte la genuinità dei giovani protagonisti per puntare la luce sull’aspetto del tradimento e della doppia faccia dell’animo umano, che spesso caratterizza figure più adulte dei soggetti a cui Geda e Magnone ci hanno abituati fin’ ora.
Il tradire e la doppia faccia sono forse fra i temi principali ne “L’isola degli dei”. Obbiettivamente era un aspetto che mancava un po’ nei volumi precedenti, essendo incentrati solo sulle dinamiche tra ragazzi e bambini; tra soggetti per i quali solitamente, nonostante gli errori commessi, esistono ancora seconde possibilità.
Non c’era nessun personaggio vagamente macchiavellico, o che fosse occupato a ordire loschi piani per i suoi beceri interessi. Alcuni ragazzi di Tegel pensavano solo ed esclusivamente al loro tornaconto materiale, ma di certo non si sono mai presentati come abbastanza malvagi da tramare loschi piani per ottenerlo. Wolfrun la escludo da questo discorso, considerandola non tanto malvagia, quanto piuttosto annoiata e arrabbiata con tutto e tutti, tant’è che nelle sue pianificazioni di devastazione non è poi andata molto lontano. Forse avevamo Claudia, la squilibrata madre del Reichstag, che poteva avvicinarsi a questo tipo di psicologia del personaggio, ma secondo me nemmeno lei può essere definita in questi termini, data la scarsa capacità di stare coi piedi per terra e la sua tendenza alla poca concretezza. Claudia non è un personaggio calcolatore, ma semplicemente pieno di deliri di onnipotenza e questo fa di lei un soggetto narrativo contemporaneamente negativo e puro, che trae la sua forza dalla sua avventatezza. Per capirci: non ci troviamo davanti a un “Ditorcorto” de “Il trono di spade”, quanto piuttosto a un Adolf Hitler nella sua forma più astratta. Non so se ho reso l’idea.
Fino ad ora, i personaggi negativi non erano del tutto negativi, bensì agivano negativamente. Se ci pensate sono due cose ben diverse, poiché così facendo si sposta il centro dell’attenzione dalla persona in sé all’azione da essa compiuta. La persona rimane un essere umano che può sbagliare e redimersi, di cui un esempio vivido e subito lampante lo troviamo proprio nella già citata Wolfrun, il cui personaggio ha compiuto un’evoluzione senza pari.
È nella singola azione, invece, la quale non definisce mai tutta la persona nella sua interezza, che si catalizza la forza negativa, lo sbaglio.
Ora,  non vi dico che l’antagonista della storia, finalmente svelato nell’ultimo libro, profondamente adulto in ogni suo aspetto e tremendamente negativo senza risoluzione, sia da considerarsi un grandissimo stratega. Tuttavia, possiamo affermare che egli ha agito nell’ombra fin dal principio e nell’ombra ha commesso indicibili crimini. Ovviamente, nonostante questo, è sempre e comunque mosso da una sua morale. Sbagliata e distorta a suo stesso vantaggio, ma che pur sempre di morale si tratta. Si potrebbe quasi dire che questo è un filo di collegamento importante fra tutti i personaggi: la morale di ciascuno di essi. Capiamoci, non credo sia un aspetto sbagliato di per sé, ma è un aspetto che molto facilmente può tendere alla bidimensionalità, perché da l’impressione che l’autore sia andato meno a fondo di quanto avrebbe potuto. Non è detto che sia vero, ma l’impressione resta, probabilmente accentuata da ciò che ho già detto: l’intento pedagogico è molto forte e si fa sentire ad ogni pagina.
In “Berlin” siamo quasi sempre circondati da ragazzi pronti a sbagliare, tanto quanto a imparare dai propri errori. Persino le schiere dei ragazzi di Tegel, che a loro modo sono sempre apparsi fortemente pericolosi, sono pericolosi nella loro ingenuità.
Si, questa storia insegna. Quanto meno mostra varie possibilità di scelta a proposito della propria vita e di come si può decidere di condurla. Poco importa se è ambientata in una Berlino alternativa post-apocalittica: la condizione psicologica in cui ci vengono mostrati i ragazzi è perfettamente paragonabile a quella di qualsiasi ragazzo dei giorni nostri (e del nostro mondo).
Questo sarà di certo stato molto importante per i due autori, o di sicuro lo è per la sottoscritta, convinta come sono che in qualsiasi caso un’opera d’arte debba sempre dire la verità, anche se sta parlando di Bianconigli, o di terre devastate da un virus mortale.
La nota dolente, però, si insidia proprio qui. Perché se è vero che un’opera deve dire la verità a tutti i costi, è anche vero che non sempre può presentarsi come politicamente corretta e se la stessa opera ha intenti pedagogici è molto facile incappare in un impasse: non poter “insegnare” qualcosa a meno che non si censuri qualcos’altro.
Del resto non ci si poteva aspettare diversamente, di certo non da Fabio Geda che come la sempre efficientissima e affidabilissima wikipedia ci informa, ha lavorato per un decennio come educatore nei servizi sociali. I suoi scritti affondano le radici in questa lunga esperienza, fortemente educativa più per l’educatore stesso che per chi viene educato. Credetemi, lavorando nel settore da quattro anni posso solo immaginare il bagaglio che ci si porta appresso dopo dieci.
Parlando di educazione e pedagogia è anche facile capire come “Berlin” abbia potuto avere un solo finale possibile. A mio parere l’aspettativa era alta e il suo sviluppo poteva  dare di più, ma non poteva essere diverso da ciò che è stato: ovvero un finale di speranza.
Resto su questo finale con ancora un po’ di fame che “Berlin” non ha soddisfatto interamente, ma decisa a promuoverlo più per i suoi obbiettivi formativi che per la sua sincerità; sempre e comunque come un’opera che sarei felice di vedere fra le mani degli adolescenti nelle scuole in cui lavoro.
Buon fine settimana, lettori di tutte le età!


-Liù

Nessun commento:

Posta un commento